mercoledì 16 novembre 2011

Inchiesta su Uriele, l'arcangelo scomparso

Un libro che racconta degli angeli nella tradizione ebraica e cristiana

di Alfonso Maraffa

UDINE, martedì, 15 novembre 2011 (ZENIT.org) - Le edizioni Segno di Udine proprio in questi giorni hanno fatto arrivare in tutte le librerie cattoliche il libro Inchiesta su Uriele. L’arcangelo scomparso. Gli autori di questo libro sono un sacerdote salernitano don Marcello Stanzione ed un avvocato avellinese il dottor Carmine Alvino accumunati da un grande amore agli angeli e che da anni cercano di diffondere tra i cattolici la vera devozione cristiana agli spiriti celesti e quindi far chiarezza su un tema dove la New Age, l’esoterismo, l’occultismo e la cabala ebraica creano grande confusione tra gli stessi fedeli praticanti delle nostre parrocchie.

Gli autori erano alquanto dubbiosi di stampare in un libro le loro considerazioni su l’angelo Uriele perché essendo un nome di angelo usato oggi prevalentemente in pubblicazioni acattoliche o addirittura anticattoliche temevano grandemente di essere equivocati e quindi di creare anch’essi, pur non volendolo assolutamente, ulteriore confusione.

Gli autori si sono decisi a stampare questo loro libro di taglio assai divulgativo su Uriele quando sabato 16 aprile 2011 acquistando il quotidiano della Santa Sede, L’Osservatore Romano, con loro grande stupore hanno trovato in prima pagina una immagine dei quattro Arcangeli e quindi pure una dell’Arcangelo Uriel (che poi hanno scelto come immagine di copertina). Il giornale vaticano proprio partendo da quell’immagine di Uriel faceva gli auguri “Ad multos annos” a sua Santità Benedetto XVI che in quel giorno festeggiava il suo compleanno.

Il quotidiano ufficiale della Santa Sede così testualmente scriveva: “ Dio è la mia luce: questo significa Uriel, il nome assegnato al quarto arcangelo da antiche tradizioni ebraiche, presenti soprattutto nel ciclo di Esdra e in quello apocrifo di Enoch, riprese tra l’altro dal cristianesimo etiopico. E proprio con una immagine tradizionale etiopica degli arcangeli, che mostrano e incensano la croce di Cristo, l’Osservatore Romano rivolge a Benedetto XVI gli auguri più affettuosi per l’ottantaquattresimo compleanno”. Anche gli autori partendo da questa immagine augurano a tutti i lettori del loro opuscolo divulgativo di essere come gli angeli santi di Dio al servizio di Cristo e degli uomini nella Santa Chiesa Cattolica.

Il libro di don Stanzione e di Alvino tratta dei nomi degli angeli, di Uriele nella tradizione angelologica ebraica e cristiana, della dimensione degli angeli nel cristianesimo primitivo ed infine di Uriele nella letteratura e nelle rappresentazioni artistiche.

Per acquistare il libro:

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Meno male che Cristo c'è



Padre Gheddo spiega perché il Vangelo è motore di sviluppo?

di Piero Gheddo

ROMA, lunedì, 14 novembre 2011 (ZENIT.org).- Dall’inizio di novembre è in libreria il volume “Meno male che Cristo c’è” (Editrice Lindau, Torino, pagg. 330), scritto in collaborazione con Gerolamo Fazzini, che mi ha provocato con le sue domande. La tesi è nel sottotitolo: ”Vangelo, sviluppo e felicità dell’uomo”, come sostengo da almeno 50 anni. Negli anni sessanta e poi in seguito, visitando le missioni in paesi poveri, sentivo spesso ripetere da missionari, fratelli e suore: “Qui ci vorrebbe il Vangelo” e mi spiegavano perché. Il beato Clemente Vismara scriveva: “Qui c’è da rifare tutto l’uomo”.

Tornando poi in Italia, scoprivo che la tesi dominante era l’opposto. La responsabilità della miseria imperante fra i diseredati della terra era quasi tutta attribuita all’Occidente cristiano: colonizzazione, multinazionali, rapina delle materie prime, debito estero, ecc. E scrivevo, fin dall’inizio degli anni sessanta, che la radice della fame e della miseria è soprattutto interna ai singoli popoli: mancanza di istruzione, di libertà e soprattutto di Vangelo. Insomma: il primo aiuto che possiamo dare ai popoli poveri è il Vangelo, i missionari sono i primi promotori di sviluppo perchè anzitutto e soprattutto annunziano Gesù Cristo, come ha scritto Benedetto XVI nella “Caritas in Veritate” (nn. 8, 11, 13, 16-18, 78). Poi fanno anche tutte le opere di carità e di promozione umana, ma se manca il Vangelo manca la radice dello sviluppo autentico, che cambia il cuore dell’uomo e la società in cui vive.

“Meno male che Cristo c’è” dimostra la verità storica e attuale di questa lettura non ideologica ma esperienziale: solo lo sviluppo secondo il Vangelo è autenticamente umano. Su “Il Nostro Tempo”, settimanale cattolico di Torino, trovo l’articolo di don Mario Prastaro, sacerdote diocesano torinese “fidei donum” missionario in Kenya, che dimostra con la sua esperienza la verità di questa tesi (“La Buona Novella agli ultimi”, N.T. del 6 novembre 2011).

Don Mario scrive: “Quando ero in vacanza in Italia, spesso mi chiedevano cosa facciamo di bello per i nostri Samburu…e si aspettavano la lunga lista di opere caritative: costruzioni, pozzi, scuole, bambini malnutriti, progetti sanitari… Mi sembra che non colgano la vera essenza della missione, che è anzitutto annunziare il Vangelo, e che in fondo esprimano un’idea di sviluppo che non è corretta… Ecco cosa oggi mi appare di una evidenza lampante: la vera via per lo sviluppo è il Vangelo, ciò che veramente trasformerà il mondo rendendolo un luogo migliore sarà solo e soltanto il Vangelo, perché la forza dello sviluppo è la fede in Gesù. Io questo l’ho visto con i miei occhi”.

E poi don Mario continua: “Se è vero che il mondo è quello che è a causa del peccato, e se è vero che il peccato ha iniziato a rovinare il mondo fin dai suoi inizi, allora vuol dire che il mondo potrà essere diverso nella misura in cui ogni singola persona inizierà un cammino diverso da quello iniziato da Adamo ed Eva”. In altre parole, i missionari sono chiamati a “innestare il vero cambiamento nella vita dei poveri…. che non è principalmente di carattere materiale, poiché solo un cuore e una mente nuova, anche in situazioni disperate, possono produrre una vita nuova e diversa. Solo il Vangelo può innestare veri e duraturi processi di sviluppo”.

E racconta la sua esperienza: “Spesso agenzie di sviluppo si sono presentate nella nostra zona proponendo il loro progetto di sviluppo e, per convincere la gente, facevano riferimento ad un tenore di vita più alto e comodo e ai vantaggi materiali che ciascuno ne avrebbe avuto. Queste agenzie di sviluppo hanno realizzato il loro progetto mobilitando e coinvolgendo le comunità, hanno fatto arrivare alla base i loro cospicui fondi con onestà e trasparenza… Un mese dopo la loro partenza, la comunità era praticamente allo stesso punto di prima… L’errore non era di carattere tecnico, ma vi era una debolezza di fondo che vanificava tutto il corretto processo e stava nelle motivazioni di fondo che avevano spinto la comunità ad accettare la realizzazione del progetto. La debolezza di fondo sta nel pensare che quanto mi viene proposto porta a me vantaggio qui e ora, che mi permette di godere di un temporaneo benessere. Ma alla fine tale motivazione non mi ha fatto cambiare il mio modo di guardare alla vita, la mia scala di valori, il senso che do alle cose che faccio, il modo in cui mi rapporto con gli altri e affronto le inevitabili difficoltà; mi ha semplicemente offerto una tecnica per avere un vantaggio materiale qui e adesso… Il Vangelo, poiché richiama alla conversione, è in grado di innestare processi di sviluppo di tutt’altra natura, poichè mette anzitutto in discussione il mio modo di rapportarmi a Dio, agli altri e al creato. Mi invita a non vivere autocentrato, ma a guardare agli altri con gli occhi e il cuore dell’amore…

“L’amore è l’essenza ultima del messaggio del Vangelo ed è l’essenza stessa di Dio… Nel momento in cui il Vangelo viene annunciato e viene accolto, la persona si apre all’amore: ecco, in questo preciso momento si innesca un processo irreversibile e fortissimo di sviluppo. La persona è diversa, ha trovato in sé una nuova motivazione e una forza che prima era celata non si sa dove e ora è in grado di mettersi in movimento con quella tenacia e pazienza del contadino che sempre porta ad un raccolto abbondante. C’è di più, nel momento in cui faccio l’esperienza di essere amato, e solo Dio mi ama veramente e perfettamente, ritrovo la mia dignità e la dignità di ogni persona che è vicino a me. Ridare dignità alle persone è uno dei grandi frutti dell’evangelizzazione e dell’azione missionaria. E quando ad una persona è ridata la sua dignità, anche nella sua estrema povertà inizia a vivere diversamente e dunque mette ancora una volta in moto un processo di sviluppo….”.

Don Mario continua in questo racconto della sua esperienza. L’augurio è che i molti missionari e missionarie italiani che annunziano la Buona Novella del Vangelo in ogni parte del mondo seguano il suo esempio e diano testimonianza in Italia della loro esperienza di evangelizzatori. Anche per “dare una mano” alla “nuova evangelizzazione” del nostro popolo italiano: per uscire dalla multiforme crisi in cui si dibatte il nostro paese (economica, politica, occupazionale, mancanza di speranza e di ideali, famiglie che si sfasciano, scuole che informano ma non educano, ecc.), la prima ricetta è che dobbiamo tutti ritornare a Gesù Cristo e ad una vita secondo il suo Vangelo.

venerdì 4 novembre 2011

Alluvione Borghetto Vara Appello della Coop Sociale Gulliver

Bellissima iniziativa di sostegno....vai qui per saperne di più:
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SII BELLA E STAI ZITTA di Michela Marzano

Mi sembra interessante e significativo proporre alla lettura il nuovo libro della filosofa Michela Marzano. Professore associato all’Università di Parigi, Paris Descartes, autrice di numerosi saggi e articoli di filosofia morale e politica, ha già pubblicato, per Mondadori, “Estensione del dominio della manipolazione” (2009). Il Settimanale “Le Nouvel Observateur” l’ha inclusa nella lista dei cinquanta pensatori oggi più influenti in Francia, indicandola come una degli otto trentenni che riflettono in modo nuovo sui problemi della società di oggi. Collabora con “La Repubblica”.
Il suo ultimo libro, “SII BELLA E STAI ZITTA” è un’attualissima analisi della condizione femminile nel nostro paese.
“Questo libro è un atto di resistenza” scrive la stessa Marzano.
“Di fronte alle offese e alle umiliazioni che subiscono oggi le donne in Italia, ho sentito il dovere di abbandonare la torre d’avorio in cui si trincerano spesso gli intellettuali per spiegare le dinamiche di oppressione che imprigionano la donna italiana”. In un contesto culturale in cui le donne sembrano contare solo per come appaiono e sono più o meno costrette ad emulare un unico, pervasivo modello di riferimento, quello delle veline , la scrittrice propone all’attenzione del pubblico un’accurata analisi al femminile ben più profonda e significativa di quella a cui siamo abituati dopo anni di tv e “cultura” commerciale.
Affronta problematiche che scuotono e, spesso, devastano la società di oggi. Anoressia e bulimia, automutilazioni e numerosi altri sintomi della profonda “emorragia identitaria” che ha investito e interessa tuttora il corpo femminile.
È giunto il momento, per le donne, di riaffermare la propria specificità e ripartire da ciò che Jean-Jacques Rousseau scriveva, due secoli fa, a proposito dell’esistenza, nella donna, di una particolare capacità di “indignazione morale” che sta all’origine della civiltà. Se le donne non reagiscono, il crepuscolo della loro dignità è destinato a coincidere con il crepuscolo della democrazia.
Michela Marzano illustra, in questo libro appassionante, le coordinate attorno alle quali sviluppare una nuova e più feconda riflessione sull’identità della donna contemporanea affrontando anche il tema della maternità, il problema di conciliare la gestione dei figli e la vita professionale, sottolineando, ad esempio, l’inadempienza dello stato italiano sui diritti delle donne in generale e delle mamme in particolare. Propone infine un’interessante riflessione sull’adolescenza che può essere di stimolo a tutti gli educatori.
Questo libro rappresenta un ulteriore motivo di riflessione perché arriva in un momento in cui l’unica urgenza, in Italia, sembra essere lo sforzo continuo di mettere a tacere ogni voce dissonante. Invece di misure concrete per superare la grave crisi sociale ed economica, ma prima di tutto etica, in atto, ci si preoccupa invece di intercettazioni o di limitare la libertà di espressione sul web.
Se però riteniamo che l’altro, con le sue specificità e differenze, è pur sempre il nostro prossimo, allora bisogna …fare ogni sforzo per cercare la mediazione e l’incontro in qualunque ambito della nostra quotidianità. Rifiutando decisamente di stare zitti. Federica Storace

mercoledì 19 ottobre 2011

Francesco Giubilei, un editore di 18 anni

Francesco Giubilei, meglio conosciuto come il “baby-editore“, è un ragazzo che a soli 18 anni è già direttore di una casa editrice, la Historica Edizioni di Cesena in provicia di Forlì. La Historica Edizioni pubblica romanzi di viaggio, narrativa e saggi ed ha già all’attivo ben 23 titoli pubblicati in soli due anni.

Abbiamo incontrato Francesco Giubilei durante il Pisa Book Festival e quello che abbiamo trovato è un ragazzo semplice, un tranquillo giovane di 18 anni se non fosse ovviamente per il suo amore verso i libri. Molti ragazzi della sua età purtroppo si avventurano soltanto nelle letture obbligatorie di scuola.

Francesco invece, come ci ha confessato, apriva di nascosto sotto al banco i suoi romanzi preferiti. Amante della narrazione in ogni sua forma Francesco legge varie tipologie di romanzo avventurandosi sia in titoli classici che in titoli di ultima pubblicazione anche se, ammette, non ama molto la poesia.

Gli abbiamo chiesto perchè ha deciso di intraprendere così giovane la strada dell’editoria e lui giustamente ha risposto “per passione”. Una passione tanto grande quella di Francesco che non è riuscita a rimanere reclusa nell’astratto mondo dei desideri ma che si è concretizzata in questa fiorente realtà editoriale.

Finito il liceo scientifico Francesco Giubilei si è iscritto alla facoltà di Lettere Moderne. Non sappiamo se la sua casa editrice riuscirà ad ingrandirsi e diventare ancora più importante ma la cosa certa è che la strada di un ragazzo come Francesco Giubilei non poteva che essere immersa nei libri. Non possiamo che fargli i nostri più grandi auguri. (fonte libriblog.com)

lunedì 10 ottobre 2011

da Avvenire del 07/10/2011

Tranströmer, il poeta e l'angelo della vita


Era da tempo che il nome del poeta svedese Tomas Tranströmer circolava tra i favoriti al Nobel per la letteratura, sostenuto anche da grandi nomi che il premio l’hanno vinto, come Derek Walcott, o che sono stati candidati al prestigioso riconoscimento, come Mario Luzi, che nel 1999 ha fortemente voluto e sollecitato la prima traduzione delle sue poesie in Italia, ad opera di Giacomo Oreglia, che gli aveva fatto conoscere Tranströmer. Il premio è meritatissimo ed è anche un segnale per i lettori, come a dire che la letteratura scandinava non è solo "giallo", ma c’è anche una forza e una bellezza che va ad indagare sulle grandi domande dell’esistenza. Lo ricorda anche l’editore Crocetti che ha pubblicato nel 2001 la raccolta Poesia dal silenzio e che ieri ha annunciato: «Stiamo pubblicando un piccolo volumetto di haiku, intitolato Il grande mistero. Tranströmer è il poeta della metafora. La sua capacità è quella di prendere e scombinare elementi della realtà quotidiana ricomponendoli in una forma diversa. Tutto viene ricondotto nella sfera dell’interiorità».

È una poesia, quella dello svedese, che si muove tra malinconia e ricerca di infinito, stando in ascolto di quelli che sono i movimenti interiori dell’anima umana, una poesia che si costruisce da sé, quasi in una trasfigurazione delle percezioni raccolte dalla vita. Anche gli Accademici svedesi parlano, nella motivazione, di come «attraverso le sue immagini condensate e translucide abbia offerto un nuovo accesso alla realtà». Una poesia che trova un proprio riferimento anche nella musica, un altro grande interesse dell’autore: lo sta a dimostrare l’omaggio che viene fatto a Liszt in una raccolta degli anni Novanta, tradotta in italiano da Herrenhaus nel 2004, La gondola lugubre, a cura di Gianna Chiesa Isnardi che sottolinea come «il viaggio poetico sulla lugubre gondola è una sorta di riassunto della vita. Un viaggio che, come suggerisce il poeta, va fatto nel silenzio».

Nato nel 1931 a Stoccolma, Tomas Tranströmer è cresciuto da solo con la madre. Si è laureato in psicologia nel 1956 e ha iniziato a lavorare, per scelta, in un istituto per minorenni disadattati nel 1960. Ha così sempre condiviso l’attività di scrittore e quella di psicologo, lavorando con disabili, carcerati e tossicodipendenti e, al contempo, affermandosi come uno dei poeti di area scandinava più significativi a livello internazionale. Nel discorso che ha tenuto in Italia, nel 2004, quando gli è stato assegnato il Premio Nonino, ha detto: «Nella mia scrittura ci sono poesie che sono nate in un tempo brevissimo, quasi mi fossero state dettate dall’inconscio; ci sono poesie che sono nate attraverso processi lunghi e difficili, e ci sono poesie che non sono mai decollate, restando solo ambiziosi esperimenti. Ma è anche difficile sapere che cosa si intende per scrivere in generale. È in atto dentro di noi un costante processo di scrittura e non c’è bisogno che approdi sulla carta».

Nel 1990 viene colpito da un ictus che gli toglie la possibilità di parlare e da allora vive su una sedia a rotelle, con accanto una figura straordinaria che Crocetti definisce come «una moglie devotissima con la quale comunica e scrive le cose che lui le detta nel loro linguaggio». La sua testimonianza in questo senso diventa esemplare come possibilità di superare difficoltà e dolori. Dice sempre il poeta: «Dentro di me continua uno scrivere costante, ma quello che arriva oggi sulla carta sono poesie molto brevi, concentrate, come quelle in forma di haiku con le loro 17 sillabe». E per spiegare come l’afasia non abbia compromesso la sua forza creativa cita l’esempio di una poesia che aveva scritto molti anni prima, dedicata al musicista russo Shebalin, anch’egli colpito da afasia, ma che continuava a comporre. Anch’egli dunque continua a scrivere e suona il pianoforte ogni giorno, usando la mano sinistra.

Il Nobel di quest’anno, giocato in casa, invita a scoprire un poeta che volge lo sguardo tra realtà e metafisica, che afferma ancora: «Con la poesia voglio chiarire a me stesso il mistero della vita, voglio descrivere in modo chiaro quegli aspetti della realtà che io vivo e sento come misteriosi», Un poeta che ha molto amato l’Italia, tanto da sceglierla come meta per il viaggio di nozze, in una Venezia in cui viene abbracciato da «un angelo senza volto» che gli sussurra: «"Non vergognarti di essere uomo, sii fiero! / Dentro di te si aprono volte su volte all’infinito / Tu non sarai mai finito e tutto è come deve essere"».

Fulvio Panzeri

venerdì 7 ottobre 2011

Volere e Volare

di Mario Gargantini*



ROMA, venerdì, 7 ottobre 2011 (ZENIT.org).- Il libro “Volere e Volare”, scritto da Carlo Bellieni e Luigi Vittorio Berliri e pubblicato da Cantagalli, è un canto alla vita, all’accoglienza, al rispetto dell’altro ben oltre, anzi in contrapposizione, alla semplice tolleranza.

Un canto a due voci molto diverse come sensibilità, esperienza professionale e anche come forma letteraria, che però trova una efficace unitarietà e incisività nel messaggio, così sintetizzato dai due autori: “una sfida al comodo pensare che la diversità sia da integrare, che la parola magica sia tolleranza, come se il diverso fosse un extraterrestre o un delinquente”.

Berliri offre una serie di testimonianze a partire dai rapporti vissuti con persone affette da varie disabilità o difficoltà di integrazione, inserendo nel testo ricordi personali, scambi epistolari, profili di personaggi e resoconti di situazioni difficili, tutti accomunati da profonda attenzione per la persona e per il mistero che racchiude.

Tutt’altro stile quello di Bellieni, che intreccia due fiction: una che parte dalla Francia medievale al tempo della crociata contro i Catari, l’altra situata nella moderna Irlanda dove, nelle sue ricerche di bioingegneria, una giovane biologa si imbatte in strani indizi che la portano a indagare su un piano di manipolazione globale della popolazione.

Le due storie sono accomunate dal fatto che i due progetti rivoluzionari perseguono lo stesso obiettivo: la selezione di una razza eletta, di uomini puri, perfetti.

Il primo progetto si infrange con lo sterminio dei Catari ma ne resta un’eco concreta che percorre la storia e se ne ritrovano tracce all’inizio dell’Ottocento e su su fino alla follia nazista e all’attività della associazione Thule, creata dal fondatore delle SS e che avrebbe potuto portare alla realizzazione dell’arma invincibile e al trionfo della razza ariana.

Nelle concitate fasi della seconda storia, che si svolge a Dublino, emergono i temi caldi del dibattito attuale sulla vita, portati alle estreme conseguenze grazie alle risorse della tecnoscienza che risolve alla radice il problema dell'eugenetica: un preciso mix di onde elettromagnetiche, tramite un effetto di risonanza, riuscirebbe a corrompere l’ossitocina, l’ormone prodotto dalle doglie del parto e che provoca l’attaccamento tra madre e bambino, arrivando in tal modo a un totale controllo demografico.

Si tratta di un programma meticolosamente preparato e sorretto da un'antropologia negativa - “In fondo l’uomo è una specie di cancro per il pianeta – inquinamento, guerre – e dunque la sua scomparsa non lascerà rimpianti” - e da una cosmologia altrettanto negativa, ben espressa da un’affermazione di uno degli iniziati della setta dei nuovi “uomini buoni”: “Non c’è onore più grande di condurre il mondo alla morte per salvare ciò che è imperituro. Tutto nella creazione è malattia e tutto deve essere purificato svanendo nel fuoco”.

Anche questo progetto però non ha successo. E non tanto per la forza dell’opposizione, quanto per una “falla interna”, che smonta in un modo imprevedibile la presunzione di onnipotenza dei tecnoscienziati: sui “diversi” il sistema anti-procreazione non funziona. Le anomalie genetiche rendono l’organismo inattaccabile dalla nuova peste invisibile: chi non ha un Dna perfetto non ha neppure il bersaglio perfetto su cui le radiazioni letali possono agire.

Così “l’anomalia genetica è diventata un’autodifesa” e ha creato uno zoccolo duro di popolazione “che è indenne alle diavolerie di questi nuovi catari-tecnologici”.

Si riapre quindi la riflessione su cosa sia “normale” e cosa sia “diverso”, e appare con evidenza che la vera questione in gioco nel dibattito sulla tecnoscienza è quella antropologica, prima ancora che quella etica o bioetica.

A quale immagine di uomo e di relazioni tra uomini si rifanno tanti progetti che sembrano rispondere a desideri e aspirazioni “umani”? Un uomo al quale, a differenza dei neo-catari, non debba dispiacere che “qualcosa dentro di noi aiuti a pensare che ci sia un buon motivo per dare la vita”.

* Mario Gargantini è Direttore di Emmeciquadro, quadrimestrale di Scienza, Educazione e Didattica

venerdì 30 settembre 2011

Ufficiale, Stephen King sta scrivendo il seguito di Shining!




Stephen King l’aveva annunciato già nel 2009, ma adesso è ufficiale: The Shining avrà un seguito, almeno letterario. Il romaziere è già al lavoro sul nuovo libro e ne ha letto un estratto durante una cerimonia di premiazione alla George Mason University. Il sequel di The Shining si chiamerà Dr Sleep e il protagonista sarà sempre il piccolo sensitivo Danny, ma 30 anni dopo i fatti dell’Overlook Hotel. Danny è ora diventato dottore ed è in contatto con le menti dei residenti di una casa di riposo che sono in punto di morte. Almeno fino all’arrivo di alcuni vampiri. Ancora non è dato sapere a chi toccherà l’onore di dirigere il film. Peccato che Stanley Kubrick non sia più tra noi.

Marcel Proust: La fuggitiva

mercoledì 21 settembre 2011

Antonia Arslan: cronaca di una rinascita

di Paolo Pegoraro*

ROMA, martedì, 13 settembre 2011 (ZENIT.org).- Gli esseri umani costruiscono piramidi, volano più in alto degli uccelli e si immergono più a fondo di qualsiasi pesce. Gli esseri umani possono attraversare i continenti, neanche avessero gli stivali delle sette leghe, o parlarsi annullando distanze enormi. Gli esseri umani inventano storie, numeri e poesie: saturano l’aria di onde elettriche, colmano la terra di leggi e il cielo di miti. Gli esseri umani tagliano foreste e prosciugano laghi. Sbarrano i fiumi e solcano i mari. Eppure a fermarli basta poco più che un granello di sabbia. Basta una vena occlusa da un minuscolo sasso – meno di un centimetro di superficie – e tutto finisce. Qualcosa di incalcolabilmente piccolo. Una probabilità imprevedibile. Gli esseri umani, enormi e fragilissimi: che esseri strani...

È così che dovremmo pensarci, se avessimo una percezione realistica di ciò che siamo. A ricordarcelo, talvolta, deve intervenire una battuta d’arresto, un intoppo minuscolo e fatale. Come quello incorso alla scrittrice di origini armene Antonia Arslan, autrice del bestseller La masseria delle allodole, che la notte fra il 12 e il 13 aprile 2009 viene ricoverata al reparto di Rianimazione per uno shock settico da calcolosi renale. I medici la inducono al coma farmacologico. Calano buio e silenzio. Per giorni e giorni. Fino a quando...

Ishtar 2 (Rizzoli, pp. 115, € 12,50) è la “cronaca di un risveglio”. È il racconto di una coscienza spaesata e fluttuante che si fa largo attraverso una landa di sogni soffusi e percezioni sfumate, dove le visioni sono più vere del vero e decidono la sorte del corpo, inconsapevole del suo destino dall’altra parte del velo, nel mondo della veglia. È una battaglia solitaria condotta in un altro stato della coscienza, là dove smarrimento e tenebra nascondono fantasmi senza nome e senza forma, collosi ammassi di velenosa malizia. Sì, perché esiste «una forza immensa e malvagia» che tenta di trascinare con sé l’autrice/protagonista, sussurrandole di raggiungerla: voci di disperazione che vorrebbero sciogliere ogni resistenza e asfissiare la speranza. Ma le ombre vengono disperse, ora dal ricordo nitido della mamma, ora dall’apparizione del leone Aslan (anche Arslan significa “leone”), ora dalle visite dell’Alta Signora che viene a consolare l’inerme malata: una Regina materna, «in veste di bambina sapiente», che con lei ama scherzare e sgranare lenticchie.

Fino al momento in cui la luce ritorna. E con essa, come da una lunga apnea, emerge anche la coscienza. Improvvisamente “rinata dall’alto” come l’anziano Nicodemo, la scrittrice riscopre la vita con la stessa stupefatta passione di «una bambina piccola»: l’impareggiabile soddisfazione del primo sorso d’acqua, la gioia tutta femminile per i capelli lavati e spazzolati, la «scoperta incantevole» del gustare i sapori del cibo.

Il tocco della vita, però, non è solo piacere. E presto costringe l’autrice/protagonista ad abbandonare la passività della «beatitudine infantile»: occorre imparare di nuovo a respirare da sola, senza l’aiuto di una macchina; bisogna impadronirsi da capo dei muscoli di braccia e gambe; tocca ricominciare a parlare. Una ripresa difficile: troppo, quasi una tortura. I vivi intorno a lei, però, spingono spietatamente a combattere: «Vuoi darti vinta per così poco? Noi facciamo del nostro meglio, e tu?». Sono le spinte e contrazioni di una seconda nascita. Solo nell’abbandono all’oblio non c’è sofferenza. Vita è anche dolore: fitte lancinanti che trafiggono il corpo senza ragione, crisi di terrore insensato – ma non per questo meno reali – come se si avesse perso qualcuno di caro. Ma pure il sollievo di scoprire che non è così. E di trovarsi accudita giorno e notte da volti vaghi e senza nome, come quello di un inserviente che – quasi come il servo inutile del Vangelo – distribuisce acqua all’assetato e subito dimentica il bene fatto, senza ritenere di aver fatto nulla di speciale. E poi da volti sempre più precisi e distinti: infermiere e medici, voci di tenerezza e voci esigenti, inflessibili, che respingono la finta compassione che nasconde la resa.

Ishtar 2 – questo il nome del reparto di Rianimazione – è un libretto breve e pregno, scritto per gratitudine. La si sente. Gonfia le righe, le feconda. E perfino un reparto di morenti e dormienti, gli riesce di trasformarlo in una casa.

Un assaggio dell’opera

Io avevo sete, tanta sete. Ogni tanto provavo a farmi capire con gli occhi, perché non riuscivo a muovere le mani, e sentivo la gola ostruita da qualcosa di viscido,ma pesante come un sasso. “Ho sete, voglio acqua” cercavo di dire, e mi raschiavo la gola per parlare, ma non ce la facevo a metter fuori la voce. Tentavo e ritentavo continuamente, e mi pareva che la voce uscisse, ma poi non la sentivo, neanche un soffio, neanche raschiante.

[…] Non c’era nessuno intorno, il buio si faceva di momento in momento più intenso, e la sete ancora più acuta. Riemergevo da un sonno opprimente, ma non potevo chiamare, solo aspettare, e un’acuta nostalgia mi prese, una voglia di piangere sulla mia miseria, sulla mia solitudine, sulla mia sete.

Fu in quel momento che tornarono in due, Roberta e un giovane, poco più di un ragazzo. Ogni tanto vengono in coppia, quando ti devono sollevare e cambiare. Mi sprimacciarono il cuscino, mi rassettarono il lenzuolo, controllarono che i piedi fossero coperti e che le lucette sul quadro dei controlli fossero a posto. Poi Roberta andò ad aggiornare il diario. Mentre facevano queste cose, io li seguivo con gli occhi, ansiosa, cercando di parlargli, di farmi capire, che avevo bisogno di acqua. Non sapevo ancora, allora, di avere un tubo in gola.

Stavano per andarsene, e l’infermiera uscì per prima. Ma, come se avesse sentito l’intensità disperata del mio sguardo, il ragazzo si voltò lentamente, mi guardò con attenzione e sorrise. Poi disse, con semplicità: «Cosa stai pensando, cara, forse hai bisogno di un’acquata?». E, come fra sé, si rispose: «Certo che ne ha bisogno!», e uscì svelto, per ritornare dopo un momento con larghi teli bianchi e un catinod’acqua appena tiepida. Cominciò a bagnarei teli, e me li appoggiava sul corpo, dappertutto, con meticolosa attenzione, rimettendolinell’acqua ogni tanto, tamponandomi con un angolo di tela la fronte e le labbra. Sentivo le gambe inerti e pesanti, come se fossero ricoperte di stoffa, e più tardi seppi che davvero lo erano, infilate in certe calze elastiche bianche che servono, mi dissero poi, a prevenire le trombosi. Ma allora non sapevo ancora nientedella mia malattia.

Un senso di frescura infinita mi si diffondeva per le membra, e perfino l’arsura in gola si attenuava, e il buio sembrava meno denso. Per mezz’ora, ci parlammo con gli occhi; ogni tanto mi guardava, scuoteva la testa e diceva: «Ancora un po’, vero? Ti fa star meglio, si vede», e quando lo vennero a chiamare, rispose: «Non la posso ancora lasciare», e continuò a darmi acqua sul corpo.

Così mi addormentai di nuovo, e lui se ne andò piano piano, silenziosamente, e per qualche ora dormii tranquilla. Speravo di rivederlo il giorno dopo, speravo che mi facesse un’altra acquata, volevo dirgli ancora grazie con gli occhi. Ma non lo rividi, né il giorno dopo, né in quelli seguenti. E quando finalmente mi tolsero il tubo e potevo parlare, cominciai achiedere di lui, ma nessuno lo conosceva, né le infermiere né i dottori: e mi accorsi che tutti loro pensavano che avessi avuto un’allucinazione, che mi immaginavo di ricordare qualche cosa che invece era stato solo un desiderio, una visione interiore dovuta alla troppa sete, ai tanti farmaci, chissà.

Allora smisi di chiedere. Ma molti giorni dopo, giusto prima che dalla Rianimazione mi mandassero nel reparto di Urologia, dove il mio calcolo renale vagabondo e maligno doveva essere individuato e stanato, proprio lui entrò verso sera nella mia stanza, portando un bicchiere. Lo riconobbi immediatamente, ma lui no. Io cominciai a parlargli dell’acquata, sorridendo nervosa, accavallando le parole: e finalmente si ricordò di me. Ma non gli pareva di aver fatto nulla di speciale, disse, lui quella sera faceva un turno a Ishtar quasi per caso, faceva una sostituzione. Io insistevo, gli dicevo quanto avesse significato per me quel suo darmi l’acqua, bagnarmi tutta, contro i fantasmi nottumi. E solo allora arrossì tutto in viso, come un ragazzino.

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*Paolo Pegoraro (Vicenza, 1977) si è laureato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e in Letterature comparate presso l'Università "La Sapienza" di Roma. Collabora da anni alle pagine culturali di numerose riviste, tra cui L'Osservatore Romano, La Civiltà Cattolica e Famiglia Cristiana.

martedì 20 settembre 2011

Campiello giovani 2011


Il vincitore della XVI edizione

Il vincitore dell'edizione 2011 del Concorso Campiello Giovani è Mattia Conti, con il racconto " Pelle di legno "

Mattia Conti

Mi chiamo Mattia Conti e odio le autopresentazioni. Ho 22 anni e vivo a Molteno, in provincia di Lecco. Ho sempre subito il fascino delle storie, le narrazioni e i racconti che hanno avvolto la mia esistenza. Ho cominciato disegnando le immagini che c’erano nella mia testa, poi è arrivata la scrittura. Ho frequentato il Liceo Artistico Medardo Rosso e nel 2005 ho pubblicato “Il moto delle onde” (OTMA Edizioni), la mia prima raccolta di poesie. Dal 2008 frequento comunicazione, media e pubblicità all’università IULM. Nel 2009 ho pubblicato il mio primo romanzo “Pandora” (Ibiskos-Ulivieri), frutto di notti a scrivere e giorni a sognare. Nel 2010 sono arrivato tra i semifinalisti al Premio Campiello Giovani con il racconto “Le stanze di fumo” e quest’anno “Pelle di legno” mi ha permesso di entrare nella Cinquina finalista. Vivo cercando di cogliere anche solo un atomo dell’immenso mistero che chiamano “vita”. Per questo scrivo.



Motivazione del Comitato Tecnico per l’ammissione in cinquina: Pelle di legno
Corale
Un bildungsroman brianzolo. La crescita alla vita di Natale Vespucci, tra Lecco e Oggiono. Veglie intorno al camino la sera, il 25 luglio del '43 e l'arrivo della ventenne spagnola e del suo bambino appena nato, partigiani e repubblichini. Notevole tenuta narrativa, lingua spedita, fresca, di rara felicità espressiva. Una tranche de vie popolare e corale, rivissuta attraverso gli occhi di un ragazzino, che non può fare a meno di guardare al di là delle nuvole quando sulla terra non riesce a trovare “qualcosa di buono”.

Motivazione della Giuria dei Letterati per la scelta del vincitore:
Un racconto di ambientazione campagnola che rievoca atmosfere ed episodî della guerra civile in un’imprecisata località del nostro settentrione. Il protagonista è un ragazzo, Natale, sicché la lente del suo guardare e rammemorare semplifica gli avvenimenti, li deforma rispetto a come li vedrebbe e ricorderebbe un adulto. Se non è la prima volta che la letteratura si prova in una impresa del genere, il risultato è tuttavia originale e gradevole: alla felice caratterizzazione dei personaggi (nonno Felino, zia Rosanna, Angelen, Adelio, Olga, il prete…) corrisponde fino all’ultima pagina una scrittura nitida e capace, rara in un ventiduenne come Mattia Conti.

Premio Campiello 2011

Il vincitore della XLIX edizione

Andrea Molesini con il romanzo "Non tutti i bastardi sono di Vienna" edito da Sellerio è il vincitore della XLIX edizione del Premio Campiello Letteratura

Andrea Molesini con il romanzo Non tutti i bastardi sono di Vienna (Sellerio) si è aggiudicato la XLIX edizione del Premio Campiello Letteratura – Confindustria Veneto.

Il romanzo di Andrea Molesini ha ottenuto 102 voti, sui 286 inviati dalla Giuria dei Trecento Lettori.

Seconda in ordine di preferenze Federica Manzon con il romanzo "Di fama e di

sventura" (Mondadori), a seguire poi Ernesto Ferrero con "Disegnare il vento" (Einaudi), Maria Pia Ammirati con "Se tu fossi qui" di (Cairo editore) e Giuseppe Lupo con "L'ultima sposa di Palmira" (Marsilio).





Andrea Molesini ha dedicato la sua vittoria "Alla memoria di Elvira Sellerio, che col rigore delle sue scelte editoriali, il suo coraggio e la sua grazia ha difeso la lingua dei padri dalla volgarità dei tempi e consentito alla nostra cultura, uguale a poche e inferiore a nessuna, di mantenere il suo posto nel mondo".
Un pensiero è andato anche "Ai librai e ai bibliotecari, che fanno un lavoro difficilissimo e in questo momento di difficoltà hanno bisogno di sostegno".



mercoledì 27 luglio 2011

LETTI E RILETTI

Joseph Roth: una patria che ci viene a cercare

di Paolo Pegoraro*

ROMA, martedì, 26 luglio 2011 (ZENIT.org).- Joseph Roth (1894-1939) è un autore sempre più conosciuto e apprezzato nel nostro Paese. Dopo gli studi dedicatigli dal germanista Claudio Magris negli anni Sessanta e la trasposizione cinematografica del suo capolavoro (La leggenda del santo bevitore, regia di Ermanno Olmi – 1988), sarebbe per un volume che ne raccolga le opere principali. Ci penserà probabilmente Newton&Compton, che ne sta meritoriamente riproponendo i titoli in edizione economica con introduzione di Giorgio Manacorda.

Originario della regione più settentrionale dell’Impero austro-ungarico – la Galizia, tra Polonia e Ucraina – Joseph Roth fu il testimone della sua dissoluzione e dello spaesamento che comportò, in particolare per la popolazione ebraica. Nei suoi romanzi più noti (Fuga senza fine, La Cripta dei Cappuccini, La marcia di Radetzky) un’opprimente incertezza e il vuoto gravido di minaccia saturano il periodo tra le due guerre. Motivi di speranza percorrono invece il romanzo Giobbe (1930) e il breve racconto La leggenda del santo bevitore (1939, pubblicato postumo).

Giobbe racconta la storia di Mendel Singer, un «comunissimo ebreo» senza il prestigio sociale, benedetto tuttavia da quattro figli. Prototipo del giusto provato dalla sventura, Mendel viene colpito nel suo unico bene – i figli – che rinnegheranno uno dopo l’altro le proprie radici. A parte uno, lo storpio e demente Menuchim, che la famiglia abbandonerà in Europa quando traverserà l’oceano per trovare pace apparente nel benessere del Nuovo Mondo. Ma quando la Seconda guerra mondiale reclama il proprio balzello di sangue, Mendel Singer indosserà la «santità della pazzia» per elevare il proprio sdegno a Dio. Passeranno anni di devastante silenzio prima che, proprio nella notte di Pasqua, ricompaia Menuchin: perfettamente sano, giunto al successo come compositore, pronto a riportare il padre al suo paese nativo.

La leggenda del santo bevitore, vero e proprio testamento spirituale dell’autore, ci porta invece nella Parigi dei clochard. Andreas Kartak è un uomo caduto talmente in disgrazia da dimenticare perfino il proprio nome. Il suo passato si è perso nel fondo di un bicchiere di Pernod, eccetto il volto della donna che l’ha portato al tracollo e il ricordo di essere stato un uomo onesto. Quando ad Andreas compare un tale che gli presta duecento franchi, da restituire in offerta alla statua di santa Teresa di Lisieaux, tutto pare cambiare. Quel semplice atto di fiducia lo smuove e avvia una serie di eventi inspiegabili che sembrano porgergli a portata di mano il riscatto sociale. Ma una serie di incontri – altrettanto inspiegabili – con i protagonisti della sua vita precedente si frappongo tra lui e la realizzazione della promessa. Il finale, tra i più toccanti della storia della letteratura, ci consegna un uomo infine riconciliato con la propria contradditorietà.

Giobbe e La leggenda differiscono in numerosi punti. La raffinatezza stilistica e compositiva del Giobbe è straordinaria. Il ritmo della narrazione vive di accelerazioni e rarefazioni, di trapassi dal realismo all’onirico, di accorgimenti lessicali minuscoli e precisi come meccanismi di orologeria (si veda, nel brano proposto qui sotto, il rintocco funebre scandito dalla triplice ripetizione dello “scialle giallo”). La leggenda ha invece una semplicità ariosa e dimessa, quella che i grandi – abbandonata ogni preoccupazione – raggiungono nella maturità. Anche i protagonisti non potrebbero essere più diversi. Mendel Singer è il giusto che si sente irriso perché è Dio – non l’uomo – a non mantenere gli accordi. Andreas Kartak è un uomo che vorrebbe mantenere la promessa e tuttavia non vi riesce, fiaccato dal suo passato. Mendel ha un rapporto diretto fino al litigio con il suo Dio, Andreas non lo conosce e lo incontra attraverso una serie di intermediari. La virtù di Mendel si manifesta nella sua inflessibilità, la rovina di Andreas è la sua incapacità di dire un solo “no”.

Eppure sono più simili di quanto non appaia. Entrambi – come tutti i personaggi di Roth – si sono smarriti: Mendel in America, Kartak a Parigi. Ognuno dei due ha perso se stesso e per quanto si sforzi non più in grado di “trovarsi”. Sono inavvertitamente scivolati fuori dalla propria patria – quella interiore, prima ancora che quella fisica – e si trovano irrevocabilmente chiuso fuori, smarriti in mondo che, per quanto vasto, non contempla un rifugio per accoglierli. Fino al momento in cui qualcuno non li trova. Fino al momento in cui qualcuno non va loro incontro. Mendel viene trovato da Menuchim, il figlio che aveva abbandonato; Andreas viene raggiunto dalla bimba Thérèse, la piccola creditrice a cui non ha saldato il debito. Se Franz Kafka aveva raccontato, ne Il messaggio dell’imperatore, la disperata speranza in un bene che c’è ma non ci potrà mai raggiungere a causa degli ostacoli che il mondo gli frappone, in queste due opere Joseph Roth ci conduce nella posizione specularmente opposta: e cioè verso un bene che c’è proprio perché può raggiungerci nonostante gli ostacoli posti da noi stessi. Giusti o ingiusti, creditori esigenti o debitori incalliti, tutti gratuitamente sfiorati dallo stesso tocco, sublime e imprevedibile.

Un assaggio dell’opera

All’improvviso si sentì a sinistra un fruscio nel grano, sebbene non si fosse levato il vento. Il fruscio si faceva sempre più vicino, adesso Mendel riusciva anche a vedere le spighe alte come un uomo muoversi, tra di esse doveva strisciare un essere umano, magari un enorme animale, un mostro. Scappare via sarebbe stata la cosa giusta, ma Mendel aspettava e si preparava alla morte. Un contadino o un soldato sarebbero saltati fuori dal grano, avrebbe accusato Mendel di furto e lo avrebbe ucciso sul posto, forse con una pietra. Poteva anche trattarsi di un vagabondo, di un assassino, di un criminale, che non voleva essere visto o sentito. «Santo Dio!», mormorò Mendel. Poi sentì delle voci. Erano due le persone che camminavano attraverso il grano, cosa che tranquillizzò l’ebreo, sebbene contemporaneamente dicesse a se stesso che doveva trattarsi di due assassini. No, non erano assassini, erano due amanti. Una voce di ragazza parlò, un uomo rise. Anche le coppie di amanti possono essere pericolose, ci sono molti casi in cui l’uomo diventa una furia, se scorge un testimone del loro amore. Presto i due sarebbero usciti fuori dal campo. Mendel Singer vinse il suo pauroso ribrezzo per i vermi della terra e si stese cauto con lo sguardo rivolto verso il grano. Poi le spighe si separarono, l’uomo uscì fuori per primo, un uomo in uniforme, un soldato dal berretto blu scuro, con stivali e speroni, il metallo riluceva e tintinnava leggero. Alle sue spalle balenò uno scialle giallo, uno scialle giallo, uno scialle giallo. Risuonò una voce, la voce di una ragazza. Il soldato si girò, posò un braccio attorno alle sue spalle, ora lo scialle si aprì, il soldato camminava dietro la ragazza, con le mani sul suo seno, la ragazza camminava avvolta dal soldato.

Mendel chiuse gli occhi e lasciò che la sventura gli passasse accanto nell’oscurità. Se non avesse avuto paura di tradirsi, si sarebbe volentieri tappato anche le orecchie per non essere costretto a sentire. Così invece doveva sentire: parole terribili, il tintinnio argentino degli speroni, risatine folli e sommesse, e la risata profonda di un uomo. Attendeva ora con malinconia il ringhiare dei cani. Se solo abbaiassero forte, tanto forte dovevano ringhiare! Fossero usciti degli assassini dal grano per ucciderlo.

Le voci si allontanarono. Ci fu il silenzio. Tutto era finito. Non era successo nulla. Mendel Singer si alzò di fretta, si guardò attorno, sollevò con le mani i lembi della lunga veste e corse verso la cittadina. Le imposte delle finestre erano chiuse, ma alcune donne sedevano ancora davanti alle porte e chiacchieravano stridule. Rallentò il passo per non cadere, compiva soltanto passi ampi e frettolosi, tenendo ancora in mano i lembi della veste. Si fermò davanti casa. Bussò alla finestra. Deborah l’aprì. «Dov’è Mirjam?», chiese Mendel. «E ancora a fare una passeggiata», disse Deborah, «nessuno la ferma! Giorno e notte va a passeggio. Non resta a casa nemmeno mezz’ora. Dio mi ha punita con questi figli, se al mondo...». «Sta’ zitta», la interruppe Mendel. «Quando Mirjam torna a casa dille che ho chiesto di lei. Oggi non vengo a casa, torno domani mattina. Oggi è l’anniversario di morte di mio nonno Zallel, vado a pregare». E si allontanò, senza aspettare risposta da sua moglie.

Non dovevano essere trascorse nemmeno tre ore da quando aveva lasciato il tempio. Ora, che ci entrava di nuovo, aveva la sensazione di tornarci dopo molte settimane, lasciò scorrere dolcemente una mano sul coperchio del suo vecchio leggio per le preghiere e celebrò con esso un nuovo incontro. Lo aprì e allungò la mano verso il suo libro vecchio, nero e pesante che era di casa tra le sue mani e che avrebbe riconosciuto senza esitazione tra mille libri uguali. Tanto familiare gli era la levigatezza della copertina con le isolette di stearina in rilievo, resti incrostati di innumerevoli candele a lungo bruciate, e gli angoli inferiori delle pagine, porosi, giallognoli, unti, tre volte piegati a forza di sfogliarle da decenni con dita inumidite. Ogni preghiera di cui aveva bisogno al momento, poteva trovarla in un instante. Era scolpita nella sua memoria con i più minuti tratti fisionomici che aveva in questo libro di preghiere, il numero delle sue righe: lo stile e la grandezza della stampa e il colore esatto delle pagine.

Nel tempio cominciava a farsi buio, la luce giallognola delle candele sulla parete orientale accanto all’armadio dei rotoli della Torah non scacciava l’oscurità, ma sembrava piuttosto nascondersi in essa. Si scorgevano il cielo e alcune stelle attraverso le finestre e si riconoscevano gli oggetti nello spazio, i leggii, il tavolo, le panche, i pezzetti di carta sul pavimento, i candelabri alle pareti, un paio di piccole fodere con le frange dorate. Mendel Singer accese due candele, le attaccò sul legno nudo del leggio, chiuse gli occhi e cominciò a pregare. Ad occhi chiusi sapeva riconoscere quando una pagina era finita, e meccanicamente la voltava. Gradualmente il suo busto cominciò a dondolare come al solito, tutto il corpo pregava, i piedi strusciavano sulle assi del pavimento, le mani si chiusero in pugni e battevano come martelli sul leggio, sul petto, sul libro e in aria. Sulla panca della stufa dormiva un ebreo senzatetto. ll suo respiro accompagnava e sosteneva il canto monotono di Mendel Singer che era come, nel deserto giallo, un canto accorato, perduto e familiare alla morte. La propria voce e il respiro del dormiente anestetizzarono Mendel, scacciarono via ogni pensiero dal suo cuore, non era altro che un orante, le parole lo attraversavano raggiungendo il cielo, un recipiente vuoto era, un imbuto. E così pregò incontro al mattino.

Il giorno alitò alla finestra. Le luci divennero fioche e deboli, dietro le basse casupole già si intravedeva levarsi il sole, riempiva di fiamme rosse le due finestre orientali dell’edificio. Mendel

spense le candele, ripose il libro, aprì gli occhi e si girò per andare via. Uscì all’aperto. C’era odore d’estate, di paludi che si essiccano e di verde nuovo. Le imposte delle finestre erano ancora chiuse. Le persone dormivano.

Mendel bussò tre volte alla porta di casa sua. Si sentiva fresco e forte, come dopo un lungo sonno privo di sogni. Sapeva esattamente cosa c’era fare. Deborah aprì la porta. «Fammi un tè», disse Mendel, «che ti devo dire una cosa. Mirjam è in casa?» «Certo», rispose Deborah, «e dove dovrebbe essere? Credi che stia già in America?».

Il samovar cominciò a sibilare, Deborah alitò dentro un bicchiere da tè e lo lucidò. Poi Mendel e Deborah cominciarono a bere assieme, con le labbra protese, sorseggiando rumorosamente.

All’improvviso Mendel posò il bicchiere e disse: «Andiamo in America. Menuchim deve restare qui. Dobbiamo portare anche Mirjam. Una sventura grava su di noi, se restiamo». Rimase in silenzio per un po’ e poi disse a bassa voce:

«Se la fa con un cosacco».

Il bicchiere scivolò tintinnando dalle mani di Deborah. Mirjam nell’angolo si svegliò e Menuchim si agitò nel suo sonno di pietra. Poi il silenzio. Milioni di allodole cominciarono a cinguettare sulla casa, sotto il cielo.

Con un lampo luminoso il sole colpì la finestra, incontrò il lucido samovar di latta e lo accese trasformandolo in uno specchio convesso.

Così cominciò il giorno.

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*Paolo Pegoraro (Vicenza, 1977) si è laureato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e in Letterature comparate presso l'Università "La Sapienza" di Roma. Collabora da anni alle pagine culturali di numerose riviste, tra cui L'Osservatore Romano, La Civiltà Cattolica e Famiglia Cristiana.

“San Bernardino da Siena. Antologia delle prediche volgari”

Bernardino da Siena, il santo del bene comune
Un esempio per politici e amministratori

di Antonio Gaspari

ROMA, mercoledì, 6 luglio 2011 (ZENIT.org).- Pochi sanno che Bernardino da Siena non fu solo un santo padre dell'Ordine dei Frati Minori e che dalle sue prediche volgari traspare un messaggio civile, politico ed economico di valore eccelso.

Dal libro “San Bernardino da Siena. Antologia delle prediche volgari” curato da Flavio Felice e Mario Fochesato ed edito dalla Cantagalli, emerge che l’amore di Cristo, insieme alla carità che ne scaturisce, sono i fondamenti di ogni possibile agire politico ed economico.

E’ impressionante scoprire l’attualità, la saggezza e la lungimiranza delle prediche volgari di san Bernardino da Siena.

I sermoni svolti dal santo su temi come i doni del Creatore, la coscienza, l’unione fraterna, il buon governo, il timor di Dio, l’elemosina e la pace potrebbero fornire un dizionario di riflessione per uomini politici e amministratori.

Già autore di un trattato di economia “Sui contratti e l’usura”, nel 1425 e poi nel 1427 san Bernardinovenne inviato a Siena da Papa Martino V a predicare al popolo per porre fine ai continui dissidi fra le diverse fazioni.

La fama e la rilevanza delle sue prediche era tale che nessuna chiesa riusciva a contenere le persone che accorrevano ad ascoltarlo, così che a Siena venne allestito un altare in Piazza del Campo.

Come precisa Mattia Fochesato nella prefazione al volume, le prediche di san Bernardino tratteggiano una nuova dottrina civile attraverso temi di grande importanza e complessità come l’amore per il prossimo, la cura della comunità, la ricerca del bene comune, le regole della buona mercanzia, l’importanza della preghiera.

Spiegava san Bernardino che l’uomo è destinato a partecipare alla gloria di Dio, e che l’amore di Cristo è un dono la cui caratteristiche sono “grandissima ricchezza; grandissima bellezza e grandissima sapienzia”.

Nelle riflessioni che riguardano la Coscienza, il santo sottolinea che Dio ha creato l’individuo per “il bello, il giusto ed il vero” ed è questa la strada per “conoscere la propria umanità” e per “costruire la propria esistenza e la propria relazione con gli altri uomini”.

Secondo san Bernardino, il riconoscimento dell’amore di Dio verso gli uomini, rappresenta il pilastro della nuova vita della comunità, perchè implica la condivisione fraterna, la solidarietà ed il sostegno reciproco degli individui, il vero amore tra uomo e donna, la volontà di risolvere le controversie.

“Per questo motivo - rileva il santo - la carità deve essere fondamento anche dell’agire di coloro che sono stati scelti per la guida della comunità”.

A questo proposito Fochesato ricorda che san Bernardino invitava i senesi a “cercare e riconoscere i segni della carità di Dio nella propria vita, perchè solo così è possibile per l’uomo la rinascita individuale e il fondamento di una nuova e giusta vita sociale”.

Le prediche del santo sono brillanti, sagaci e anche divertenti. Scritte con il linguaggio toscano del tempo, risultano oggi un vero e proprio tesoro da cui attingere insegnamenti di vita.

In merito alla condotta di vita per esempio, san Bernardino ha scritto: “Non basta astenersi dal male, se non fai l’operazioni buone”. Sulla condivisione: “Oh quanto è buono e quanto è giocondo abitare e fratelli in uno”.

Per spiegare il perdono, san Bernardino riprende Seneca il quale sosteneva che “la miglior vendetta è il perdono” e poi aggiunge che il perdono conviene per “magnanimità, per santa vendetta, per tua utilità e per eccellenza di carità”.

Sull’elemosina san Bernardino afferma che “se vuoi che la tua robba multipli, usa di dare limosine” e soprattutto “quando tu dai la limosina dalla con allegrezza”.

LETTI E RILETTI

Una possibilità più grande della letteratura

di Paolo Pegoraro*

ROMA, martedì, 12 luglio 2011 (ZENIT.org).- È stato dunque Edoardo Nesi ad aggiudicarsi la 65ma edizione del Premio Strega, con uno stacco di oltre sessanta punti su tutti gli altri candidati: una vittoria netta e pulita, come non accadeva da tempo. Nesi – traduttore ed ex imprenditore – era in corsa con Storia della mia gente, una “autobiografia al plurale” che racconta fortuna e caduta dell’industria tessile a Prato; ma è soprattutto nei romanzi L’età dell’oro e Per sempre che fa sentire la sua stoffa di narratore. In particolare con Per sempre, rieditato lo scorso anno per Bompiani (pp. 157,€ 7,50), Nesi aveva dimostrato una qualità rara: lasciarsi mettere in gioco dalle storie che racconta, scombinare carte e calcoli, arrivare persino a conclusioni contrarie al punto di partenza.

Tanto da dichiarare, in una conferenza stampa di presentazione: «Quando ho cominciato a scrivere questo libro non credevo in Gesù». E la storia di Per sempre è un po’ tutta qui: un racconto nato per gioco e fattosi via via sempre più serio. Protagonista è Alice, vent’anni, sette tatuaggi, sei orecchini al lobo destro, cinque a quello sinistro, un piercing al naso, capelli rosso fuoco. Giubbotto di pelle, jeans strappati alle ginocchia, anfibi dell’esercito russo: un look aggressivo e un animo vulnerabilissimo. Ma Alice non è una sbandata. È solo una ragazza come troppe, con un lavoro precario in un call center, un’amica cocainomane e disillusa, un amore finito alle spalle. Il mondo non è sempre un bel posto, ma Alice non fa la vittima, anzi, vuole un futuro. Non ha forze da sprecare in sterili rabbie denunciatarie: cerca speranza. Anche se ogni tanto, per reggere all’urto della realtà, sottrae qualche antidolorifico alla mamma. Chiamarli “psicofarmaci” fa sentire in colpa: e così le chiama “caramelle”. E poi Alice sogna, diventa Alice nel paese delle meraviglie. E quando comincia ad apparirle Gesù non si preoccupa neppure più di tanto. Fino a quando un dubbio non la sfiora: e se, nonostante tutto, non fosse una allucinazione?

Una domandache è diventata la stessa di Nesi durante la scrittura del libro, nato appunto come un gioco che doveva restare privo di risposta, un’irrisolta ambiguità sospesa tra realtà e finzione. “E se invece fosse tutto vero? E se invece la storia di Gesù fosse vera? E se davvero il Figlio di Dio si fosse realmente fatto uomo?”. Dubbio martellante: la fede imbocca possibilità che perfino l’immaginazione letteraria fatica a contemplare. Così Nesi comincia a leggere i Vangeli, resta incantato dalla stringatezza di Marco, riprende in mano le quasi 400 pagine già scritte e comincia a tagliare, a sfoltire, a buttare. Lasciandosi guidare non da un disegno letterario prestabilito, ma da una possibilità che alcuni uomini hanno preso in considerazione da due millenni. Fidandosi del silenzio più che delle parole. Il risultato è un romanzo snello – appena 150 pagine – il più breve che Nesi abbia mai scritto. Un racconto magari non perfetto, ma nel quale brillano una semplicità e una sincerità rare. Dove Gesù non è più un personaggio letterario – una delle tante ricostruzioni che tornano ciclicamente nelle librerie – ma semplicemente una presenza che c’è. Che esiste ed è presente, oggi. Alice sarà sempre più alla deriva, eppure al suo fianco continua ad apparirle un Gesù silenzioso, che la guarda senza mai giudicare, senza dire nulla. Perché ha già detto tutto, per chi davvero lo vuole ascoltare. L’unica altra cosa che egli può aggiungere è la realtà della sua presenza accanto a ogni uomo. In qualunque momento, in qualsiasi situazione. E così Alice si trova Gesù a fianco anche quando vorrebbe abbandonarsi con innocenza all’autodistruzione, lasciando che la percezione del dolore si smarrisse, alla deriva, con tutta la coscienza. Invece Gesù rimane lì, nella sua tunica bianca, a guardarla. Sempre. Perfino in discoteca, persino al lap-dance, mentre sniffa coca o consola la sua amica Deborah che si è messa con un uomo di 30 anni più grande. Il turpiloquio non lo intimorisce, non tradisce nessuno scandalo. Non ci sono luoghi estranei alla sua presenza, dove la sua cura disdegni di accompagnare l’uomo e lo abbandoni a se stesso.

Pare davvero di leggere il salmo 138 declinato nei luoghi dell’alienazione consumistica: «Se dico: “Almeno le tenebre mi avvolgano / e la luce intorno a me sia notte”; / nemmeno le tenebre per te sono tenebre, / e la notte è luminosa come il giorno; / per te le tenebre sono come luce» (vv. 11-12). E quando Alice si rende conto che quelle apparizioni non sono frutto di una sniffata di troppo, allora qualcosa cambia. Perché Alice comprenderà infine che la disperazione – sua e di chi le sta intorno – non è una richiesta di morte, ma un desiderio frustrato di vita. «Suicidarmi non fa per me – dirà. – Io vorrei vivere meglio, non morire alla grande». Ecco, Per sempre racconta la salvezza che va incontro a vite che sentono di meritarsi solo la distruzione. Una salvezza che si fa confidentemente vicina, alla quale si può dire “Scusa” e “Grazie”. Alla quale si possono confidare le grandi ansie ma anche i timori stupidi, le massime ambizioni ma anche desideri infantili. Sì, a questo Gesù si può perfino osare chiedere la realizzazione di un «miracolo goffo». In fondo, alle nozze di Cana, Gesù non guarì malati né resuscitò morti né diede da mangiare agli affamati. Fece un miracolo assolutamente non necessario per evitare l’imbarazzo ad alcuni amici. Per accontentare sua madre. A un Dio così, allora, si può rivolgere la parola.

Un assaggio dell’opera

Ilsole cala lentissimo, giallo come i limoni cotti, e illumina la città sfinita. Il cielo è limpido, un vento d’alta quota sfilaccia le nuvole, le sbiadisce, le allunga per decine di chilometri. C’è un freddo che morde il naso e i lobi delle orecchie. Il tramonto del giorno di Natale non è un granché. Però aspetto, paziente, in attesa che qualcosa cambi. Che succeda qualcosa. Faccio sempre così, fin da bambina. Quando arriva il momento di andar via da un posto, o di addormentarsi, o di smettere di fare qualunque cosa, persino di cambiare canale alla televisione... Ecco, esito, perché non sopporto l’idea di perdermi qualcosa di bello che forse sta per succedere solo perché non ho avuto la fiducia o la pazienza o la fede – sì, la fede – di aspettare che succedesse. Perché sono incostante, viziata. Una bambina, insomma. Una donna, come diceva mio padre, e scuoteva la testa.

E così aspetto, mentre le mani cominciano a intorpidirsi per il freddo, e mi sento vuota e serena, e mi dico che ci dev’ essere davvero qualcosa che non torna in me se gli unici momenti in cui sto bene sono quelli passati a guardare una cosa infinitamente lontana e più grande di me. Sarebbe roba da psicologi, solo che io dagli psicologi non ci vado, basta vedere cos’è successo a Seymour. Poi in un secondo, in un solo secondo, il sole comincia ad accelerare e si abbassa più velocemente, come se cadesse o si staccasse dal cielo, e mi ricordo che Edo mi aveva raccontato questa cosa fantastica che in realtà il sole a questo punto è già tramontato e quella che vediamo è solo la sua immagine rifratta dagli strati più densi dell’atmosfera, una di quelle sue cose astronomiche che capivo poco ma che mi piaceva tantissimo che mi raccontasse. Il sole perde la forma sferica e comincia a nascondersi dietro la collina, che poi è la nuova discarica regionale, e il cielo si riempie di una miriade di nuovi colori: sulla pancia delle nuvole, subito sopra l’arco di luce pura, là dove fino a un attimo prima c’era solo l’azzurro, ora ci sono anche il bianco e il verde e il giallo e l’arancio, e poi c’è un’esplosione immensa e silenziosa, e vedo i colori volare nel cielo come schegge, finché tutto si ferma e il mondo diventa rosa. li cielo è rosa e le nuvole sono rosa e la città è rosa e la croce della cattedrale brilla come se fosse fatta di diamanti rosa, e io sono così ammirata, Signore.

Grazie.

Lo so che questo era per me, e anche se dura poco, solo qualche secondo, non importa, perché mentre comincia la notte e il rosa si scioglie nel celeste in un suo modo incomprensibile, io sono felice che sei qui con me, Signore, Gesù, seduto accanto a me su questo stupido tetto sudicio, e profumi di lavanda, e se allungo un braccio ti posso toccare.

Sei bellissimo. Hai i capelli lunghi, la barba curata, leunghie dei piedi tagliate perfettamente. La tua tunica è immacolata. Chissà come sei, veramente. Cioè, che forma hai. Sei un globo di luce? Un’ombra leggera? Un pensiero?

Dev’essere stata durissima, eh? Cioè, fare quello che hai fatto tu. Perché lo sapevi, certo che lo sapevi... Lo sapevi come sarebbe stato, quanto male avresti sentito... Oh, mi sei piaciuto tantissimo quando sei crollato per un attimo e hai pregato di poterti salvare – nell’orto, di notte, da solo, mentre tutti gli altri dormivano –, quando ti sei perso d’animo e hai avuto paura, come uno di noi, davvero, e hai chiesto a Dio di non morire.

Gesù, Signore, come hai fatto, tu che sei immortale, a morire?

E quando sei risorto, come ti sei sentito? Come potevi essere uguale a prima? Quando avevi provato, tu, tutto quel dolore? E la rabbia? E l’amore? E l’odio? Non sono sentimenti da essere onnipotente: è roba nostra, quella. Sono le emozioni, la droga più forte di tutte.

Io credo che per te diventare uomo sia stato un po’ come ammalarti. Cioè, dopo esserti fatto uomo, tu lo sia rimasto per sempre. Un Dio umano, sei diventato, il nostro Dio. Ti sei innamorato di noi, delle tue figlie e dei tuoi figli. E, dopo essere risorto, non sei semplicemente salito in cielo, Gesù. Sei rimasto sulla Terra. Ti sei mischiato a noi, hai vissuto in mezzo a noi. Hai guardato le albe e i tramonti, il sole e la luna, i fulmini e i temporali. Hai ascoltato la nostra musica, visto i nostri film, letto i nostri libri, ammirato i nostri quadri e le nostre sculture. Cioè, sei rimasto a guardarci come se fossimo il tuo cinema: ognuna delle nostre vite un film diverso, miliardi di storie che hai visto crescere e svilupparsi, e a volte ti sei divertito e a volte hai pianto – perché sono sicura che piangi anche tu e, anzi, io dico che non hai fatto che piangere, in tutti questi anni.

Perché ti abbiamo veramente fatto male, giusto?

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*Paolo Pegoraro (Vicenza, 1977) si è laureato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e in Letterature comparate presso l'Università "La Sapienza" di Roma. Collabora da anni alle pagine culturali di numerose riviste, tra cui L'Osservatore Romano, La Civiltà Cattolica e Famiglia Cristiana.

lunedì 18 luglio 2011

PREMIO BANCARELLA 2011 - IL SECONDO POSTO -


Franco Di Mare - Non chiedere perché.

Marco chiese il conto. Un marco bosniaco e mezzo. Frugò in tasca e trovò una moneta da due. Poi ci ripensò. Cercò meglio e trovò gil spiccioli esatti. Li appoggiò sul tavolo e andò via. Un marco e mezzo. Non un centesimo di più. Non avrebbe mai potuto lasciare una mancia alla madre di sua figlia.

Un inviato a Sarajevo, durante gli anni della guerra nei Balcani. Il suo lavoro è difficile. Deve documentare l’assedio feroce di una città europea per storia e vocazione; una città cosmopolita nelle usanze che, nel giro di pochi anni, si trova ad essere teatro di una guerra impensabile.
I giornalisti che viaggiano molto, gli inviati speciali che corrispondono dai paesi in guerra, conducono spesso una vita solitaria: non c’è tempo per consolidare gli affetti, per mettere radici, per coltivare una famiglia.
Marco Di Luca, protagonista di “Non chiedere perché”, non fa eccezione. Ancora giovane, è già reduce da una separazione consumata in seguito alle sue assenze.
Quando accetta di partire per la Bosnia, nel 1992, lo fa senza pensarci troppo anche perché non ha nessuno che cerchi di trattenerlo, di averlo accanto a sé.
A entrare in confidenza con la morte, respirata e conosciuta ad ogni angolo di strada, Di Luca impiegherà poco tempo, così come a farsi conoscere e rispettare dai serbi con cui entra in contatto: traduttori, professori, uomini e donne di ogni estrazione e professione.
Di Luca è bravo a confezionare rapidamente servizi televisivi nei quali racconta la vita che prosegue, nonostante tutto, nelle manifestazioni quotidiane di coraggio della gente di Sarajevo. Ma il suo lavoro, naturalmente, è anche quello di mostrare in maniera inconfutabile l'orrore che si sta consumando nel cuore del vecchio continente in mezzo all'indifferenza generale e all'inanità delle Nazioni Unite.
Un giorno, una granata cade viene sparata su di un orfanotrofio.
In mezzo ai bambini, fortunatamente tutti sopravvissuti, ce n’è una che attira immediatamente l’attenzione di Marco: è Malina, di dieci mesi, unica bimba dai capelli scuri in mezzo a molti caschetti e capelli chiari.
In un gesto spontaneo di Malina, che gli cinge la testa con il braccino, Marco vede una richiesta e un appello, e a questo appello risponde con una promessa: farà di tutto per avere in affido, e possibilmente adottare, questa bambina sfortunata.
Gli ostacoli, naturalmente, non mancano: e prima ancora delle difficoltà oggettive che la guerra impone ogni giorno a chi debba farsi strada tra le scheggie che solleva, a impensierire il giornalista sono i suoi stessi dubbi. Perché proprio quella bambina, e non un altro, fra i tanti che all’orfanotrofio mostrano di aver bisogno di una famiglia, di qualcuno che si prenda cura di loro? Nonostante tutto, però, Di Luca va avanti a testa bassa, mobilitando nella sua crociata personale amici e colleghi, e trovando risorse inaspettate a tutti i livelli, tra istituzioni e persone che a vario titolo si spendono per rendere la vita un po’ meno drammatica ai bosniaci.


Fra i personaggi che affollano le pagine del libro di Franco Di Mare – la cui storia vera è appena dissimulata nel libro dai nomi, che sono inventati – ci sono coraggiose giornaliste tedesche, presidentesse di associazioni per la tutela dei diritti dei bambini, operatori televisivi e persone la cui storia è comunque segnata dall'esperienza della guerra, che così come distrugge le vite puo' rinsaldare i rapporti d'amicizia o farne nascere di nuovi.

PREMIO BANCARELLA 2011 - IL VINCITORE -


E’ lo scrittore-montanaro Mauro Corona il vincitore del Premio Bancarella 2011, assegnato ieri sera da una giuria composta da duecento librai indipendenti a Pontremoli. Con uno scarto di voti notevole, l’autore de ”La fine del mondo storto” (Mondadori) ha staccato per trenta voti (75-45) il secondo classificato Franco Di Mare con Non chiedere perché (Rizzoli), Andrea Frediani con Dictator – Il trionfo di Cesare (Newton Compton), 28 voti, Alessandro Barbero con Lepanto (Laterza), 19 voti, Claudio Fracassi con Il romanzo dei mille (Mursia), 16 voti e Alberto Cavanna con A piccoli colpi di remo (Arte Navale) con 6 voti . La serata, presentata da Letizia Leviti, si è svolta di fronte a una piazza della Repubblica gremita di persone, accorse da tutta la Toscana e oltre,per assistere all’evento culturale più atteso dell’estate lunigianese che hanno sfidato la pioggia, restando comunque in attesa del verdetto sotto il tendone allestito in Piazza Duomo.

Il libro di Corona parte da un presupposto inquietante: un giorno il mondo si sveglia e scopre che sono finiti il petrolio, il carbone e l’energia elettrica.

È pieno inverno, soffia un vento ghiacciato e i denti aguzzi del freddo mordono alle caviglie. Gli uomini si guardano l’un l’altro, hanno occhi smarriti e il terrore stringe i loro cuori. E ora come faranno? La stagione gelida avanza e non ci sono termosifoni a scaldare, il cibo scarseggia, non c’è nemmeno più luce a illuminare le notti. Le città sono diventate un deserto silenzioso, senza traffico e senza gli schiamazzi e la musica dei locali. Rapidamente gli uomini si accorgono che tutto il benessere conquistato, fatto di oggetti meravigliosi e tecnologia all’avanguardia, è perfettamente inutile. Circondati dal superfluo e privi del necessario, intuiscono che una salvezza esiste, ma si nasconde in un sapere antico, da tempo dimenticato.

PREMIO BANCARELLA 2011





VINCITORE PREMIO BANCARELLA 2011: MAURO CORONA 17 Luglio 2011
Da: FONDAZIONE CITTA DEL LIBRO

Si è conclusa la manifestazione “Nove giorni di libri” e con lei anche l’attesissimo Premio Bancarella. La giornata di ieri ha decretato il suo vincitore, Mauro Corona, che con uno scarto di voti notevole ha battuto tutti gli altri concorrenti in gara. La competizione vedeva protagonisti oltre al vincitore, che ha trionfato con 75 voti, il secondo classificato Franco Di Mare con Non chiedere perché (Rizzoli), con 45 preferenze, Andrea Frediani con Dictator – Il trionfo di Cesare (Newton Compton), 28 voti, Alessandro Barbero con Lepanto (Laterza), 19 voti, Claudio Fracassi con Il romanzo dei mille (Mursia), 16 voti e Alberto Cavanna con A piccoli colpi di remo (Arte Navale) con 6 voti . La serata, presentata da Letizia Leviti, si è svolta di fronte a una Piazza della Repubblica gremita di persone, accorse da tutta la Toscana e oltre,per assistere all’evento culturale più atteso dell’estate lunigianese che hanno sfidato la pioggia, restando comunque in attesa del verdetto sotto il tendone allestito in Piazza Duomo.

venerdì 8 luglio 2011

PREMIO STREGA - Il secondo posto -



L'ENERGIA DEL VUOTO
Autore: Bruno Arpaia
Pagg. 266
€ 16.50
Narrativa
Collana: Narratori della Fenice
In libreria dal: 13 Gennaio 2011


IL LIBRO
È notte, su una stradina di montagna in Svizzera. Un’auto procede veloce, diretta a Marsiglia. A bordo un uomo, Pietro Leone, funzionario dell’Onu a Ginevra. Accanto a lui dorme il figlio Nico, una console stretta fra le mani, i jeans a vita bassissima come ogni adolescente che si rispetti. I due sono in fuga, anche se nemmeno Pietro sa da cosa sta fuggendo. La sola certezza è che da giorni qualcuno tiene sotto controllo i suoi movimenti e che la moglie Emilia Viñas, spagnola, ricercatrice al Cern, la sera precedente non è tornata a casa. La donna è la responsabile di uno degli esperimenti con il Large Hadron Collider, l’Lhc, il più potente acceleratore di particelle mai costruito al mondo. Emilia ama il suo lavoro, al quale spesso, necessariamente, sacrifica la famiglia e soprattutto il rapporto con Pietro, che sembra giunto a un punto morto. Del resto, quella della fisica, da Einstein alla teoria delle stringhe, è un’avventura troppo affascinante.
Lo scopre anche Nuria Moreno, giornalista di Madrid giunta al Cern per realizzare un servizio per il suo giornale e conquistata da quel mondo all’inizio tanto lontano da lei. E proprio grazie alle sue domande, che si fanno via via più puntuali, veniamo coinvolti in un universo che a molti appare misterioso e incomprensibile, ma che in queste pagine si racconta e si manifesta con l’immaginazione e la passione che lo animano, rivelandosi intessuto della stessa sostanza, dello stesso desiderio di conoscenza, degli interrogativi sul futuro e sulla vita che agitano tutti noi... Da chi stanno scappando Pietro e Nico? Dov’è finita Emilia?

I GIUDIZI
"Bruno Arpaia è uno di quelli che affrontano l'arte e la letteratura con l'unica ambizione di essere coerenti con la vita e con l'epoca che gli è toccato vivere."
Luis Sepulveda

UN BRANO
"C’erano quasi. Gli ultimi calcoli, le ultime tarature con i raggi cosmici, altre simulazioni con dati Monte Carlo, le ultime verifiche dei calorimetri e delle camere a muoni, e poi, quando arrivava il benedetto fascio, sarebbero stati pronti per partire. Emilia sollevò lo sguardo dallo schermo e sbirciò Rudy con un sorrisino, ma a lui sembrò che sul suo viso ci fosse più stanchezza che soddisfazione.
«Ora smettiamo» disse. «Siamo troppo stanchi. Meglio farle domani, le verifiche... Abbiamo ancora tempo...»
Erano le otto e mezza e fuori era già buio, ma lì, al centro di controllo provvisorio, a un centinaio di metri sotto terra, le stesse luci al neon perennemente accese facevano confondere le due di notte e le dieci del mattino.
«Va bene» si decise Emilia. «Però domani ricontrolliamo tutto dal principio.»"

PREMIO STREGA - Il vincitore -



Roma - “Erano artigiani, straordinari e fragilissimi artigiani. Lontani pronipoti

dei maestri di bottega medievali, e ciononostante rappresentavano l’ossatura di un sistema economico che incredibilmente si reggeva su di loro, e anche se era ben lungi dall’essere perfetto, funzionava, eccome se funzionava e si basava su quello che all’epoca erano le regole del libero mercato”.

Un mondo spazzato via dalla globalizzazione in nome di quello stesso libero mercato, una realtà che Edoardo Nesi, che ieri notte si è aggiudicato l’edizione 2011 del premio Strega, racconta con rabbia e nostalgia, nel suo romanzo-saggio “Storia della mia gente” (Bompiani, 163 pagine, 14 euro). Le operazioni di voto nel Ninfeo di Villa Giulia a Roma si sono prolungate nella notte registrando una sfida a due fra Nesi e Bruno Arpaia, autore di “L’energia del vuoto” (Guanda, 266 pagine , 16,50 euro). Al terzo posto Mario Desiati con “Ternitti” (Mondadori, 264 pagine, 18,50 euro). Non sono mai veramente entrate in gara, invece, la giovane Mariapia Veladiano con “La vita accanto” (Einaudi, 172 pagine, 26 euro) e Luciana Castellina che ha pubblicato l’autobiografia “La scoperta del mondo” (Nottetempo, 280 pagine, 16,50 euro).

“Storia della mia gente” scritto da un imprenditore diventato scrittore, ultimo esponente di una dinastia di industriali tessili, racconta come proprio a lui sia toccato il compito di vendere l’azienda di famiglia, prima che fosse travolta dalla concorrenza cinese. Il libro risulta per metà l’autobiografia di un intellettuale sedotto dalla letteratura americana e per l’altra un’impietosa analisi economica, politica e sociale degli errori compiuti, a cavallo del millennio, dal sistema Italia nel gestire la rivoluzione dei mercati mondiali.

Anche il libro di Desiati si occupa di lavoro, ma da una prospettiva del tutto diversa, sia come stile che come contenuti. Desiati narra, infatti, la storia di una famiglia pugliese costretta a emigrare in Svizzera dove il capofamiglia dovrà lavorare in una fabbrica di eternit con le conseguenze drammatiche che il contatto con l’amianto comporterà per lui e per tanti altri lavoratori. Nel suo romanzo anche Bruno Arpaia affronta un tema di straordinaria attualità come il rapporto fra la scienza e la vita quotidiana, partendo da un luogo unico al mondo: il Cern di Ginevra, dove si svolgono gli esperimenti per tentare di riprodurre il momento del Big Bang , l’attimo in cui è nata la materia.

Su questo sfondo si sviluppa una trama complessa in cui si intersecano terrorismo e evoluzione dei rapporti padre-figlio. Il libro di Luciana Castellina ripercorre invece gli anni dell’adolescenza della futura militante comunista durante il fascismo.

mercoledì 29 giugno 2011

Letti e riletti per noi


“Malafede”, un romanzo sulla felicità

di Paolo Pegoraro*

ROMA, martedì, 21 giugno 2011 (ZENIT.org).- Se c’è una parola oggi ancora capace di metterci in crisi è proprio quella: “felicità”. Colonna sonora dell’ottimismo anni Ottanta – chi non ricorda il tormentone di Al Bano e Romina Power? – la felicità pare essersi esaurita con il boom economico. Per evitare vuoti di governo emotivo, la si è subito rimpiazzata con un sinonimo meno impegnativo, il re fantoccio “benessere”. Dopo di che basta evitare accuratamente la fatale domanda (“Ma io, io sono felice?”). E tanti saluti ad Aristotele, all’eudamonia e a tutto il resto. Perché se il male è, per molti, forse l’ultima oscura certezza, cosa significa invece l’imprevedibilità dell’essere felici? e cosa implica desiderarlo, volerlo, perfino osare esserlo?

La domanda se l’è posta anche lo scrittore Maurizio Cotrona in un romanzo che sembra un ossimoro fin dal titolo – Malafede (Lantana, 2011, pp. 188, € 15) – e che invece è solo il nome di un confortevole quartiere di provincia, ancora fresco di costruzione e ribattezzato “Giardino di Roma”. A Malafede abita anche una giovane coppia, Giordano e Vittoria, originari di Taranto ma costretti a stabilirsi nella capitale dal lavoro in ministero di lui. Il che ha naturalmente un prezzo: Giordano è costretto a stare lontano dal padre anziano e Vittoria, per recarsi nello studio dove svolge il suo praticantato, deve cambiare otto mezzi di trasporto all’andata e altrettanti al ritorno.

Entrambi affrontano la situazione in maniera molto diversa.Vittoria è un carattere altalenante, che «riesce a essere completamente felice, come una coccinella, o completamente disperata, come un randagio azzoppato». Il suo pianto e il suo riso provengono «da un fondo di cui non sappiamo niente, di cui io non so niente, di cui lei non sa niente, un fondo che non è uguale o simile o paragonabile a niente». Giordano di squilibri, invece, non è proprio capace: quando è in acqua ama “fare il morto”, stare a galla sempre e comunque è la sua virtù e la sua maledizione. Tanto da non rendersi conto che, pur di non lasciarsi turbare dall’infelicità, sta mentendo a se stesso. Dirà che la carbonara di Vittoria è ottima anche se fa schifo. Se dietro la chioma bionda e liscia gli cresceranno pure dei capelli ricci e neri, li strapperà via. Manderà e-mail agli amici chiedendo di raccontargli il loro momento più felice, ma senza condividere il proprio. Imporrà alla moglie e al padre soluzioni connaturali alla propria immagine di felicità, piuttosto che alla loro. Vedrà sempre e comunque il mezzo bicchiere pieno, anche se le persone intorno a lui fanno acqua da tutte le parti. Perché ci sono falle ovunque: le lacrime scandalose degli adulti, il volto di un mendicante, colleghe che litigano a lavoro, la sporcizia che non viene mai del tutto debellata, una società che è «una comunità di vittime»: gente che non sarebbe felice neppure in paradiso e per questo – ritiene Giordano – non ci andrà mai.

Ma alla prova dei fatti, quella di Giordano si mostrerà essere una strategia preventiva per evitare l’urto con l’imperfezione del mondo, e perfino i suoi tentativi di rimediare all’infelicità altrui si riveleranno per le maschere di egoismo che sono: gli altri non devono essere infelici altrimenti io sto male, la loro felicità è necessaria per salvaguardare la mia. Pagina dopo pagina, fallimento dopo fallimento, i suoi velleitari tentativi di resistenza si sgretoleranno trascinandosi dietro il rassicurante nido di relazioni intessute su misura. L’assedio dei fantasmi della disoccupazione e della salute si faranno sempre più pressanti. E infine giungerà il collasso, benedetto, che schianterà la sua bolla di felicità autoreferenziale come una piaga purulenta. La sua malafede sarà svelata completamente davanti a un’immagine sacra (vedi il brano riportato qui sotto), proprio fissando negli occhi la fede buona, quella vera: disarmante passaggio di una grazia che lascia nudi con la propria verità che incombe come una tempesta.

Se dunque né il vittismo pessimistico né l’ottimismo ingenuo di Giordano sono due strade percorribili, quale felicità è dunque lecita? Nelle ultime pagine del romanzo Cotrona suggerisce gli elementi per un’allegria di trincea, quell’intimo senso di condivisione che si sviluppa fra coloro che combattono per una stessa causa. E che probabilmente daranno la vita in battaglia, pur senza conoscere gli esiti della guerra. Una citazione esplicita dal quinto capitolo di Ortodossia di G.K. Chesterton: se al pessimista bisogna rimproverare l’incapacità di incidere sul reale perché non ama ciò che biasima, all’ottimista bisogna fare lo stesso rimprovero perché difende l’indifendibile e dà una mano di bianco al mondo, invece di lavarlo. Due atteggiamenti apparentemente opposti che tuttavia conducono alla medesima conclusione: nessun cambiamento dello status quo. Occorre invece l’atteggiamento del patriota che, proprio perché ama la sua terra, ne vede anche i limiti e le vergogne, e combatte contro di esse. Occorre covare stupore ma anche orrore. Occorre che la gratitudine maturi in correzione e in conversione.

Il poeta Giacomo Noventa lo ha detto in pochi versi, scintillanti come ferro battuto estratto dalla forgia: «L’amore non è fatto / solo di amore. / Per amare / bisogna anche odiare».

Un assaggio dell’opera

Settembre. Ilprimo di settembre mi sveglio in cerca di mani calde, di braccia dentro cui dondolare; mi metto in piedi davanti allo specchio e scopro che ho la punta della lingua infiammata, gli occhi gonfi, in testa meno capelli di quelli che ricordavo, una narice otturata. Dico «a», la mia voce puzza di stoviglie sporche ed è un odore che mi nausea, barcollo, sento una torsione al petto, il mio sangue circola male e il cuore mi ricorda di che pasta sono fatto. Giuro su me stesso di trovare il tempo per entrare in una chiesa e recitare una preghiera come si deve, oggi stesso. Questa mattina, oggi pomeriggio, forse non proprio oggi, domani, domani l’altro. Il 30 di settembre la signora Loredo si toglie la vita, un cappio al collo e un salto, la notizia non mi sorprende neanche un po’. È già arrivato ottobre. Primi giorni di ottobre, è già il 7 ottobre, è già 1’8 ottobre. Via del Corso, piazza San Silvestro.

Entro in una chiesa.

Passo dalla luce accecante del pomeriggio all’ombra di un chiostro. Alla mia sinistra c’è una testa mummificata, la pelle fossilizzata su un cranio ben conservato. Una didascalia scritta a penna dice che è la testa di san Giovanni Battista e sembra incredibile che un reliquia così preziosa stia gettata lì, alla portata delle mie dita sporche dell’inchiostro della «Gazzetta dello Sport». Alla mia destra c’è una riproduzione della Pietà di Michelangelo, in ceramica e a colori. Gli occhi nocciola di Cristo mi guardano, dritti nei miei, dolenti. Quanto soffre. Mi sposto di un passo a destra, non guardano più me, ora.

Supero un’altra porta e cerco una Madonna mentre i miei occhi si adattano all’ambiente fiocamente illuminato, ne trovo una piccolina di gesso bianco e mi ci inginocchio davanti. Ha un sorriso lieve sulla bocca e gli occhi dolci dolci, non si mostra sofferente, lei. Un nastro celeste sulla testa, sembra in grado di perdonare tutto. C’è un signore con un bambino in braccio sotto la statua, il bambino la guarda. «Ti piace la Madonna, la vuoi toccare?» Una manina sfiora la guancia di Maria. Ave Maria piena di grazia, il Signore è con te. La superficie liscia ma porosa del gesso mi fa venire voglia di tendere una mano per accarezzarla anch’io, mi aspetto pelle cremosa al tatto.

E se ora...

Èproprio buio qui, mi sfilo gli occhiali da sole, le uniche fonti di luce sono una dozzina di candele e quattro vetrate strette e impolverate. Fisso il contorno delle sue pupille, disegnate da una sottile incisione circolare. Sposto il peso sul ginocchio destro, il legno scricchiola. Se questa Madonna muovesse gli occhi, ora? Getto via un fiato, lo riprendo. Santa Maria, madre di Dio. E se questa Madonna ora muovesse gli occhi, o di più, tanto per scansare equivoci, se spalancasse le braccia, si facesse di carne e scendesse giù da lì per darmi un bacio di fuoco, lasciandomi il segno indelebile delle sue labbra sulla guancia? Se ora questa Madonna mi desse un bacio di fuoco? Mi metto seduto.

Se questa Madonna mi desse un bacio di fuoco, riconoscendomi come suo figlio immortale, io uscirei di qui e scoprirei che il sole non è mai stato così bello. Sorriderei come uno scemo ai passanti carichi di buste variopinte e, a costo di farmi riempire la faccia di schiaffi, prenderei un corpo qualsiasi e lo stringerei forte forte forte forte!, finché non ci facciamo entrambi male, e poi ne prenderei un altro e lo stringerei ancora più forte. Mi inginocchierei di fronte a ogni singolo uomo, venererei ogni singolo uomo sulla terra, i brutti e i belli, gli ultimi e i primi, vessati e vessatorio Dimenticherei il mio tempo e i vestiti che ho addosso e la mia casa, passerei il resto della mia vita a dichiarare il mio amore a ogni uomo e donna, a spiegare a ogni uomo e a ogni donna quale meraviglia siano. Dimenticherei di bere e di mangiare e rischierei la mia vita per questo, cercherei di essere bellissimo nella povertà per testimoniare che la mia bellezza non esige orpelli. Camminerei nudo anche d’inverno e mi leverei la pelle di dosso per mostrare quanto sono bello, avrei pietà dei vermi di questo mondo e onorerei con un ciclo continuo di rosari i capelli grigi di papà e l’anima di mamma.

Ci sono solo io dentro la chiesa, ora, sento il mio respiro.

Mentre nella mia testa scorre il fIlm della mia vita purificata dal bacio di Maria, un cigolio alle mie spalle mi scuote. Un tuffo al cuore, il sangue si ritira dal mio viso. Un semplice cigolio, i cardini arrugginiti di una vecchia porta, è bastato a spaventarmi a morte. È un tremito che denuda la mia immaginazione. Se questa Madonna muovesse gli occhi, ecco cosa farei: morirei di paura. Morirei di paura. Se il mio cuore reggesse, poi, scapperei lontano da questa statua, come un assassino o un brigante, e passerei il resto della mia vita nello sforzo di cancellare il ricordo del suo viso della memoria. Se lei è dentro quella scultura è per pietà che non muove gli occhi, per risparmiarmi il terrore. Ecco la mia verità, benché qui io volga la mia voce al cielo non voglio dal cielo una voce che risponda. Messo di fronte alla madre della grazia divina, faccia a faccia con l’amore padrone di ogni desiderio, quello di una mamma con il potere di riempire ogni vuoto e portarmi per mano in una casa dai soffitti d’oro, di fronte alla migliore delle buone notizie – la certezza che il sogno generato e nutrito da migliaia di generazioni di uomini è vivo, è mio, è lì e mi guarda, mi tocca, mi bacia chiedendomi in cambio solo di non chiudere gli occhi –, io li chiuderei gli occhi e girerei le spalle alla madre purissima capace di riscattare il dolore degli oppressi e mutare tutto il marcio di questo mondo in eterna gloria, girerei le spalle alla porta del cielo e scapperei via, il solo pensiero di quello sguardo riempie il mio fino a farlo scoppiare.

Non ci starebbe dentro di me, quello sguardo.

A un tratto la chiesa sembra un posto lontano. Distolgo le pupille, salto in piedi, dentro c’è un caldo insopportabile, esco in fretta e una parete di luce mi acceca, ma le mie gambe si muovono rapide. Il mio cuore tuona e mi scuote, ho i fulmini nella testa e lampi negli occhi. «Non c’è nessuna Madonna lì dentro, nessuna Madonna lì dentro, nessuna», continuo a ripetermi mentre cammino a testa bassa. La metro mi inghiotte a piazza di Spagna e mi sputa fuori a Palasport. Cammino su viale America, poi su viale Asia, la molle metropoli di cemento si piega su di me da entrambi i lati della strada, per restare in piedi i palazzi si aggrappano gli uni agli altri. So dove trovare quello di cui ho bisogno, quello che cerco è all’incrocio tra viale Europa e la Colombo, lo vedo. Piedi nudi di carbone in fondo a un cappotto nero, una mano tesa. Sta sempre qui a chiedere spiccioli, senza offrire servizi particolari in cambio se non la purificazione delle coscienze dei donatori. Tocco il mendicante su una spalla, si volta. Occhi giovani dietro una lunga barba, occhi grandi.

«Ciao, io sono Giordano». Prendo fiato. Lui non dice niente e non stringe la mano che gli porgo. Passanti in panni eleganti ci guardano, butto giù un sorso di saliva. Le automobili si affrettano, sta per scattare il rosso. Mi sento così stanco. «Io sono una persona gentile, una persona buona», farfuglio, «ecco». Con un gesto risoluto gli metto una banconota da venti euro in una mano. Ha gli occhi nerissimi, occhi belli. Il mio viso deve avere qualcosa che non va, invece, lui mi guarda come se non riuscisse a metterlo bene a fuoco. «Ecco!» Mi sfilo la giacca, una bella giacca celeste di cotone robusto, tendo il braccio e gliela metto davanti. «Prendi». La mia giacca penzola dalle mia dita davanti ai suoi occhi. «Prendila, ti prego, è tua».

«Che vuoi da me, amico?» Infila i venti euro nella tasca interna della mia giacca. Ha gli occhi della Terra Santa di Palestina. Si allontana verso i suoi finestrini, lasciandomi lì tutto solo a tremare e tremare.

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*Paolo Pegoraro (Vicenza, 1977) si è laureato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e in Letterature comparate presso l'Università "La Sapienza" di Roma. Collabora da anni alle pagine culturali di numerose riviste, tra cui L'Osservatore Romano, La Civiltà Cattolica e Famiglia Cristiana.