mercoledì 29 giugno 2011

Letti e riletti per noi


“Malafede”, un romanzo sulla felicità

di Paolo Pegoraro*

ROMA, martedì, 21 giugno 2011 (ZENIT.org).- Se c’è una parola oggi ancora capace di metterci in crisi è proprio quella: “felicità”. Colonna sonora dell’ottimismo anni Ottanta – chi non ricorda il tormentone di Al Bano e Romina Power? – la felicità pare essersi esaurita con il boom economico. Per evitare vuoti di governo emotivo, la si è subito rimpiazzata con un sinonimo meno impegnativo, il re fantoccio “benessere”. Dopo di che basta evitare accuratamente la fatale domanda (“Ma io, io sono felice?”). E tanti saluti ad Aristotele, all’eudamonia e a tutto il resto. Perché se il male è, per molti, forse l’ultima oscura certezza, cosa significa invece l’imprevedibilità dell’essere felici? e cosa implica desiderarlo, volerlo, perfino osare esserlo?

La domanda se l’è posta anche lo scrittore Maurizio Cotrona in un romanzo che sembra un ossimoro fin dal titolo – Malafede (Lantana, 2011, pp. 188, € 15) – e che invece è solo il nome di un confortevole quartiere di provincia, ancora fresco di costruzione e ribattezzato “Giardino di Roma”. A Malafede abita anche una giovane coppia, Giordano e Vittoria, originari di Taranto ma costretti a stabilirsi nella capitale dal lavoro in ministero di lui. Il che ha naturalmente un prezzo: Giordano è costretto a stare lontano dal padre anziano e Vittoria, per recarsi nello studio dove svolge il suo praticantato, deve cambiare otto mezzi di trasporto all’andata e altrettanti al ritorno.

Entrambi affrontano la situazione in maniera molto diversa.Vittoria è un carattere altalenante, che «riesce a essere completamente felice, come una coccinella, o completamente disperata, come un randagio azzoppato». Il suo pianto e il suo riso provengono «da un fondo di cui non sappiamo niente, di cui io non so niente, di cui lei non sa niente, un fondo che non è uguale o simile o paragonabile a niente». Giordano di squilibri, invece, non è proprio capace: quando è in acqua ama “fare il morto”, stare a galla sempre e comunque è la sua virtù e la sua maledizione. Tanto da non rendersi conto che, pur di non lasciarsi turbare dall’infelicità, sta mentendo a se stesso. Dirà che la carbonara di Vittoria è ottima anche se fa schifo. Se dietro la chioma bionda e liscia gli cresceranno pure dei capelli ricci e neri, li strapperà via. Manderà e-mail agli amici chiedendo di raccontargli il loro momento più felice, ma senza condividere il proprio. Imporrà alla moglie e al padre soluzioni connaturali alla propria immagine di felicità, piuttosto che alla loro. Vedrà sempre e comunque il mezzo bicchiere pieno, anche se le persone intorno a lui fanno acqua da tutte le parti. Perché ci sono falle ovunque: le lacrime scandalose degli adulti, il volto di un mendicante, colleghe che litigano a lavoro, la sporcizia che non viene mai del tutto debellata, una società che è «una comunità di vittime»: gente che non sarebbe felice neppure in paradiso e per questo – ritiene Giordano – non ci andrà mai.

Ma alla prova dei fatti, quella di Giordano si mostrerà essere una strategia preventiva per evitare l’urto con l’imperfezione del mondo, e perfino i suoi tentativi di rimediare all’infelicità altrui si riveleranno per le maschere di egoismo che sono: gli altri non devono essere infelici altrimenti io sto male, la loro felicità è necessaria per salvaguardare la mia. Pagina dopo pagina, fallimento dopo fallimento, i suoi velleitari tentativi di resistenza si sgretoleranno trascinandosi dietro il rassicurante nido di relazioni intessute su misura. L’assedio dei fantasmi della disoccupazione e della salute si faranno sempre più pressanti. E infine giungerà il collasso, benedetto, che schianterà la sua bolla di felicità autoreferenziale come una piaga purulenta. La sua malafede sarà svelata completamente davanti a un’immagine sacra (vedi il brano riportato qui sotto), proprio fissando negli occhi la fede buona, quella vera: disarmante passaggio di una grazia che lascia nudi con la propria verità che incombe come una tempesta.

Se dunque né il vittismo pessimistico né l’ottimismo ingenuo di Giordano sono due strade percorribili, quale felicità è dunque lecita? Nelle ultime pagine del romanzo Cotrona suggerisce gli elementi per un’allegria di trincea, quell’intimo senso di condivisione che si sviluppa fra coloro che combattono per una stessa causa. E che probabilmente daranno la vita in battaglia, pur senza conoscere gli esiti della guerra. Una citazione esplicita dal quinto capitolo di Ortodossia di G.K. Chesterton: se al pessimista bisogna rimproverare l’incapacità di incidere sul reale perché non ama ciò che biasima, all’ottimista bisogna fare lo stesso rimprovero perché difende l’indifendibile e dà una mano di bianco al mondo, invece di lavarlo. Due atteggiamenti apparentemente opposti che tuttavia conducono alla medesima conclusione: nessun cambiamento dello status quo. Occorre invece l’atteggiamento del patriota che, proprio perché ama la sua terra, ne vede anche i limiti e le vergogne, e combatte contro di esse. Occorre covare stupore ma anche orrore. Occorre che la gratitudine maturi in correzione e in conversione.

Il poeta Giacomo Noventa lo ha detto in pochi versi, scintillanti come ferro battuto estratto dalla forgia: «L’amore non è fatto / solo di amore. / Per amare / bisogna anche odiare».

Un assaggio dell’opera

Settembre. Ilprimo di settembre mi sveglio in cerca di mani calde, di braccia dentro cui dondolare; mi metto in piedi davanti allo specchio e scopro che ho la punta della lingua infiammata, gli occhi gonfi, in testa meno capelli di quelli che ricordavo, una narice otturata. Dico «a», la mia voce puzza di stoviglie sporche ed è un odore che mi nausea, barcollo, sento una torsione al petto, il mio sangue circola male e il cuore mi ricorda di che pasta sono fatto. Giuro su me stesso di trovare il tempo per entrare in una chiesa e recitare una preghiera come si deve, oggi stesso. Questa mattina, oggi pomeriggio, forse non proprio oggi, domani, domani l’altro. Il 30 di settembre la signora Loredo si toglie la vita, un cappio al collo e un salto, la notizia non mi sorprende neanche un po’. È già arrivato ottobre. Primi giorni di ottobre, è già il 7 ottobre, è già 1’8 ottobre. Via del Corso, piazza San Silvestro.

Entro in una chiesa.

Passo dalla luce accecante del pomeriggio all’ombra di un chiostro. Alla mia sinistra c’è una testa mummificata, la pelle fossilizzata su un cranio ben conservato. Una didascalia scritta a penna dice che è la testa di san Giovanni Battista e sembra incredibile che un reliquia così preziosa stia gettata lì, alla portata delle mie dita sporche dell’inchiostro della «Gazzetta dello Sport». Alla mia destra c’è una riproduzione della Pietà di Michelangelo, in ceramica e a colori. Gli occhi nocciola di Cristo mi guardano, dritti nei miei, dolenti. Quanto soffre. Mi sposto di un passo a destra, non guardano più me, ora.

Supero un’altra porta e cerco una Madonna mentre i miei occhi si adattano all’ambiente fiocamente illuminato, ne trovo una piccolina di gesso bianco e mi ci inginocchio davanti. Ha un sorriso lieve sulla bocca e gli occhi dolci dolci, non si mostra sofferente, lei. Un nastro celeste sulla testa, sembra in grado di perdonare tutto. C’è un signore con un bambino in braccio sotto la statua, il bambino la guarda. «Ti piace la Madonna, la vuoi toccare?» Una manina sfiora la guancia di Maria. Ave Maria piena di grazia, il Signore è con te. La superficie liscia ma porosa del gesso mi fa venire voglia di tendere una mano per accarezzarla anch’io, mi aspetto pelle cremosa al tatto.

E se ora...

Èproprio buio qui, mi sfilo gli occhiali da sole, le uniche fonti di luce sono una dozzina di candele e quattro vetrate strette e impolverate. Fisso il contorno delle sue pupille, disegnate da una sottile incisione circolare. Sposto il peso sul ginocchio destro, il legno scricchiola. Se questa Madonna muovesse gli occhi, ora? Getto via un fiato, lo riprendo. Santa Maria, madre di Dio. E se questa Madonna ora muovesse gli occhi, o di più, tanto per scansare equivoci, se spalancasse le braccia, si facesse di carne e scendesse giù da lì per darmi un bacio di fuoco, lasciandomi il segno indelebile delle sue labbra sulla guancia? Se ora questa Madonna mi desse un bacio di fuoco? Mi metto seduto.

Se questa Madonna mi desse un bacio di fuoco, riconoscendomi come suo figlio immortale, io uscirei di qui e scoprirei che il sole non è mai stato così bello. Sorriderei come uno scemo ai passanti carichi di buste variopinte e, a costo di farmi riempire la faccia di schiaffi, prenderei un corpo qualsiasi e lo stringerei forte forte forte forte!, finché non ci facciamo entrambi male, e poi ne prenderei un altro e lo stringerei ancora più forte. Mi inginocchierei di fronte a ogni singolo uomo, venererei ogni singolo uomo sulla terra, i brutti e i belli, gli ultimi e i primi, vessati e vessatorio Dimenticherei il mio tempo e i vestiti che ho addosso e la mia casa, passerei il resto della mia vita a dichiarare il mio amore a ogni uomo e donna, a spiegare a ogni uomo e a ogni donna quale meraviglia siano. Dimenticherei di bere e di mangiare e rischierei la mia vita per questo, cercherei di essere bellissimo nella povertà per testimoniare che la mia bellezza non esige orpelli. Camminerei nudo anche d’inverno e mi leverei la pelle di dosso per mostrare quanto sono bello, avrei pietà dei vermi di questo mondo e onorerei con un ciclo continuo di rosari i capelli grigi di papà e l’anima di mamma.

Ci sono solo io dentro la chiesa, ora, sento il mio respiro.

Mentre nella mia testa scorre il fIlm della mia vita purificata dal bacio di Maria, un cigolio alle mie spalle mi scuote. Un tuffo al cuore, il sangue si ritira dal mio viso. Un semplice cigolio, i cardini arrugginiti di una vecchia porta, è bastato a spaventarmi a morte. È un tremito che denuda la mia immaginazione. Se questa Madonna muovesse gli occhi, ecco cosa farei: morirei di paura. Morirei di paura. Se il mio cuore reggesse, poi, scapperei lontano da questa statua, come un assassino o un brigante, e passerei il resto della mia vita nello sforzo di cancellare il ricordo del suo viso della memoria. Se lei è dentro quella scultura è per pietà che non muove gli occhi, per risparmiarmi il terrore. Ecco la mia verità, benché qui io volga la mia voce al cielo non voglio dal cielo una voce che risponda. Messo di fronte alla madre della grazia divina, faccia a faccia con l’amore padrone di ogni desiderio, quello di una mamma con il potere di riempire ogni vuoto e portarmi per mano in una casa dai soffitti d’oro, di fronte alla migliore delle buone notizie – la certezza che il sogno generato e nutrito da migliaia di generazioni di uomini è vivo, è mio, è lì e mi guarda, mi tocca, mi bacia chiedendomi in cambio solo di non chiudere gli occhi –, io li chiuderei gli occhi e girerei le spalle alla madre purissima capace di riscattare il dolore degli oppressi e mutare tutto il marcio di questo mondo in eterna gloria, girerei le spalle alla porta del cielo e scapperei via, il solo pensiero di quello sguardo riempie il mio fino a farlo scoppiare.

Non ci starebbe dentro di me, quello sguardo.

A un tratto la chiesa sembra un posto lontano. Distolgo le pupille, salto in piedi, dentro c’è un caldo insopportabile, esco in fretta e una parete di luce mi acceca, ma le mie gambe si muovono rapide. Il mio cuore tuona e mi scuote, ho i fulmini nella testa e lampi negli occhi. «Non c’è nessuna Madonna lì dentro, nessuna Madonna lì dentro, nessuna», continuo a ripetermi mentre cammino a testa bassa. La metro mi inghiotte a piazza di Spagna e mi sputa fuori a Palasport. Cammino su viale America, poi su viale Asia, la molle metropoli di cemento si piega su di me da entrambi i lati della strada, per restare in piedi i palazzi si aggrappano gli uni agli altri. So dove trovare quello di cui ho bisogno, quello che cerco è all’incrocio tra viale Europa e la Colombo, lo vedo. Piedi nudi di carbone in fondo a un cappotto nero, una mano tesa. Sta sempre qui a chiedere spiccioli, senza offrire servizi particolari in cambio se non la purificazione delle coscienze dei donatori. Tocco il mendicante su una spalla, si volta. Occhi giovani dietro una lunga barba, occhi grandi.

«Ciao, io sono Giordano». Prendo fiato. Lui non dice niente e non stringe la mano che gli porgo. Passanti in panni eleganti ci guardano, butto giù un sorso di saliva. Le automobili si affrettano, sta per scattare il rosso. Mi sento così stanco. «Io sono una persona gentile, una persona buona», farfuglio, «ecco». Con un gesto risoluto gli metto una banconota da venti euro in una mano. Ha gli occhi nerissimi, occhi belli. Il mio viso deve avere qualcosa che non va, invece, lui mi guarda come se non riuscisse a metterlo bene a fuoco. «Ecco!» Mi sfilo la giacca, una bella giacca celeste di cotone robusto, tendo il braccio e gliela metto davanti. «Prendi». La mia giacca penzola dalle mia dita davanti ai suoi occhi. «Prendila, ti prego, è tua».

«Che vuoi da me, amico?» Infila i venti euro nella tasca interna della mia giacca. Ha gli occhi della Terra Santa di Palestina. Si allontana verso i suoi finestrini, lasciandomi lì tutto solo a tremare e tremare.

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*Paolo Pegoraro (Vicenza, 1977) si è laureato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e in Letterature comparate presso l'Università "La Sapienza" di Roma. Collabora da anni alle pagine culturali di numerose riviste, tra cui L'Osservatore Romano, La Civiltà Cattolica e Famiglia Cristiana.

mercoledì 22 giugno 2011

Alessandro Barbero, "Gli occhi di Venezia" -

"Il grande scomunicato" di Luca Di Fulvio

In un racconto fuori dal tempo e dallo spazio Luca Di Fulvio torna in libreria con il romanzo Il grande scomunicato



BookTrailer - Silvio Muccino per Luca di Fulvio
un fantastico BookTrailer, scopri il video e compra il libro in uscita per Bompiani

martedì 21 giugno 2011

Caffè Letterario con Gianluca Morozzi

Da sei anni l' Hotel ALA D'ORO di Lugo' ospita il “Caffè Letterario di Lugo” una rassegna culturale che prevede presentazione di libri, serate conviviali, conferenze, mostre fotografiche. A cura di Patrizia Randi e Marco Sangiorgi

Lunedì 20 giugno, alle ore 21,00, nella Sala Conferenze dell'Hotel Ala d'Oro, la narrativa torna protagonista a Caffè Letterario con Gianluca Morozzi che presenterà il suo ultimo romanzo "Cicatrici", pubblicato da Guanda. A introdurre l'incontro con l'autore bolognese, sarà la curatrice di Caffè Letterario Patrizia Randi. Come di consueto al termine della serata brindisi con i vini in degustazione per tutti i presenti.
In una grande città del Nord Italia, un uomo insospettabile ha compiuto un efferato delitto davanti a centinaia di testimoni. Nemo Quegg, un grigio e tranquillo tipografo di periferia, ha ucciso una persona con un coltello da cucina, in mezzo a una folla di bambini e genitori che assistevano alla sfilata di un circo. Poi ha gettato il coltello e ha aspettato con calma l’arrivo della polizia. Alla psicologa che dovrà stilare la perizia sulla sanità mentale, Nemo Quegg racconta la sua agghiacciante storia...
Gianluca Morozzi, oltre a libri di contenuto " leggero e giovanilistico" ha giá scritto un impegnativo noir dal titolo "Blackout". Cicatrici amplia il panorama strettamente noir con risvolti esoterici, di non facile comprensione, almeno ad una prima lettura. Quello che sembra essere la trama del libro, la confessione di un assassino alla psicologa del carcere, a proposito di un feroce delitto apparentemente inspiegabile e commesso da una persona mite e riservata si arricchisce di elementi nuovi. Ed il romanzo diventa una sorta di gioco di specchi, in cui i personaggi assumono di volta in volta personalitá e caratteristiche diverse. Senza accorgercene, ci troviamo in mezzo a fenomeni di dejá vu, reincarnazioni, predestinazioni e così via. Il tutto, però scritto in maniera stringata ed efficace, nello stile conosciuto dell'autore. In ogni caso un libro che si legge senza respiro dalla prima all’ultima pagina senza pause.
Gianluca Morozzi è nato a Bologna nel 1971. Dopo gli esordi con la piccola casa editrice ravennate Fernandel, ha raggiunto il grande pubblico grazie al romanzo Blackout, un thriller "claustrofobico" interamente ambientato all'interno di un ascensore. Oltre ai romanzi già pubblicati, ha all'attivo numerosi racconti, inseriti in diverse antologie.

giovedì 16 giugno 2011

DIEGO DE SILVA al Caffè Letterario di Lugo - 25 maggio 2011



Riassunto in 13 minuti della serata del Caffè Letterario di Lugo con DIEGO DE SILVA che ha presentato iI libro "Mia suocera beve" edito da Einaudi. Ha introdotto la serata Marco Sangiorgi. Aula Magna del Liceo Classico di Lugo il 25 maggio 2011

PER PARLARE DI MONTAGNA "Terre alte. Il libro della montagna"

"Ecco il freddo, la solitudine, la fame e il sollievo. Il mondo in lontananza - a volte il mare - senza rimpianti. Fughe di valli, di montagne, ghiacciai e precipizi, l'orizzonte velato da coltri di nuvole.
Siamo in vetta: solo qui è il posto giusto, siamo finalmente noi stessi."


Per parlare di montagna bisogna conoscerla e amarla davvero. Non ci si può improvvisare esperti. Per parlare di montagna è necessario aver percorso sentieri e vallate, avere raggiunto qualche cima, non necessariamente con corde e chiodi ma anche solo camminando, aver sciato nel silenzio ad alta quota o aver attraversato canaloni e altipiani sulle piste da fondo. Bisogna aver respirato una certa aria rarefatta, essere stati scottati da un sole incredibilmente forte e poco filtrato, aver visto quella luce che in ogni parte del mondo ti fa capire che sei in montagna.

Carlo Grande conosce la montagna, la ama e ce la racconta, con grande semplicità, nelle pagine di questo breve libro che non è un romanzo, non è un saggio e neppure un racconto di viaggio, ma una raccolta di impressioni e ricordi che ci fanno rivivere momenti della sua vita legati alle "terre alte".
Certo, chi vive a Torino come lui è già "geneticamente" predisposto ad avvicinarsi a quelle cime che vede ogni giorno, come le quinte di un teatro lungo centinaia di chilometri. La montagna è come il mare, di cui tutti sanno l'effetto d'attrazione e di rimpianto che suscita in chi vi è nato e se ne è allontanato. Anche la montagna (e chi di voi ha vissuto ai suoi piedi o sui suoi pendii lo sa) genera un sentimento di nostalgia e di passione molto forte.


Le "terre alte" sono in vero composte da molte realtà: la collina, le valli, i boschi, tutto ciò che si staglia sulla pianura è un primo passo verso la montagna che si avvicina con le sue creste, i passi, i valichi, le pietraie... La montagna è anche i villaggi in cui l'uomo vive, gli alpeggi sui versanti soleggiati, l'acqua che vi scorre, le nuvole che passano rapide sul suo cielo, gli animali che la abitano, le piante che segnano perfettamente le altitudini, come uno strumento di precisione.
La montagna è salita ed è anche discesa. Ed è la bella bibliografia di libri importanti che chiude questo bellissimo racconto.


Le prime pagine

                                                                   Prologo

«Camminare per le montagne è uno sciocco piacere » disse il Baiai Lama a Heinrich Harrer nel film Sette anni in Tibet. Il Compassionevole, l'Oceano di saggezza è in grado di scendere in se stesso e di uscire dalla nostra prigione materiale e morale senza bisogno di salire, di faticare. Ma noi che viviamo in città, che mangiamo senza fame e beviamo senza sete, che ci stanchiamo senza che il corpo fatichi, che rincorriamo il nostro tempo senza raggiungerlo mai, abbiamo bisogno di riprenderci le nostre vite, di trovare una strada che ci riporti al centro di noi stessi. Quando si ha, come noi, una tale sicurezza materiale da non temere più di tanto per il futuro, quando non ci si domanda cosa succederà la settimana prossima, quando si ha sempre di che vivere e non si sa più per cosa, si forma intorno a noi una prigione senza confini, da cui è difficile fuggire.
   Una delle vie maestre, la più faticosa e feconda, è quella che conduce alle terre alte. Guai a perdere il bene della montagna e della natura, volgere le spalle alla sua verità profonda. È fatta di bellezza, di fatica, di solitudine e silenzio: valori poco alla moda, che aiutano a vivere. Il vero isolamento, quello che ci fa sentire soli, non è una condizione fisica, è uno stato morale. È rimanere fra gente insulsa e compiere azioni insignificanti, è produrre cose inutili che mortificano la nostra vita e la svuotano di senso.
   La montagna, in tempi di carestia fisica (di aria, di acqua, di terra) e spirituale (etica ed estetica), è una delle ultime risorse per salvare il pianeta e le speranze dell'uomo. Frequentare la natura e le terre alte è un modo fondamentale per ritrovare dignità, poesia, contemplazione, senso dell'eroismo. Ciò che di buono, insomma, si agita di tanto in tanto nel nostro animo.
   La montagna siamo noi, la nostra parte più nascosta, preziosa e vitale. Come il duende, il demone della creatività descritto da Federico Garcia Lorca in un saggio immortale, non è tecnica, non è fantasia, non è intelligenza. Non è solo questo. La montagna ci solleva e ci fa patire, ci trafigge nel profondo, ci scuote e infine ci lascia muti. È una forza istintiva e potentissima, inesprimibile, "che sorge dalle più segrete stanze del nostro sangue" dice García Lorca. È un grumo dionisiaco che contiene gioia e dolore, solitudine e amicizia, canto e silenzio, vento, ghiaccio e sole splendente. È trasalimento, è un potere misterioso che brucia il sangue e prosciuga. È una ferita inguaribile, attraverso la quale scorre il nostro sangue più puro.





L'autore


Carlo Grande
scrittore e giornalista torinese, lavora a La Stampa e collabora con varie testate e la Scuola Holden occupandosi di cultura e di ambiente.
Per sette anni ha diretto la rivista di Italia Nostra.
Vive e lavora a Torino.

CAPOLAVORO- Diario di una marmotta filosofo -

Una piccola indifesa marmotta, che viveva una vita serena con la sua famiglia sulle montagne, è rimasta vittima di una spaventosa catastrofe. Verso la fine del letargo invernale, si risveglia lontano dalla sua tana, prigioniera, "circondata da uomini orribili". Riesce però fortunosamente a spezzare la catena ed evadere, pur portandosi dietro il collare: umiliante ricordo della sua prigionia.
Gli animali del bosco la sfuggono, terrorizzati e ostili. La sua sorte però non sarà infelice, perchè ha deciso di dedicarsi interamente alla filosofia e allo studio del mistero dell'esistenza. Confortevolmente piazzata in una nuova tana, al cospetto delle alte cime e delle meraviglie della natura, la marmotta-filosofo si dedica a scrivere il suo diario, ritmato dal calendario delle lune e delle stagioni, cercando di svelare il mistero dell "lunga notte".
A metà strada tra il racconto filosofico, nel quale aleggia lo spettro del lungo sonno come metafora della morte, ed un affascinante affresco del regno della natura, del bosco con i suoi segreti e la vita degli animali, il diario della marmotta-filosofo (1875) - capolavoro di Rambert, quasi un frammento d'autobiografia morale gustosamente "trasposto", come in certi romanzi di Voltaire o racconti di Musset - è qui tradotto per la prima volta in italiano.
172 pagine - illustrato - rilegato

Edizione FONDAZIONE MONTI

Da "Agorà idee" pubblicato da "Avvenire" del 01/05/2011

Rula Jebreal LA STRADA DEI FIORI DI MIRAL

La storia di una ragazza palestinese a Gerusalemme: l’amore e la nostalgia per una terra dilaniata dal dolore in un racconto poetico che è anche un coraggioso messaggio di pace.


Miral è il nome di un fiore che cresce nel deserto dopo la pioggia. Il suo profumo è de­licato, ma il calore del sole lo rende giorno dopo giorno più intenso e inebriante. Miral è anche il nome di una ragazza palestinese fragile e coraggiosa, E' ancora una bambina quando viene accolta nel collegio fondato da Hind Husseini,una donna di straordinaria energia e forza, appartenente a una delle maggiori famiglie arabe di Gerusalemme, Dopo la tragica morte della madre di Miral e il coinvolgimento della zia in un attentato terroristico, il padre decide di cambiare il cognome delle figlie e di allontanarle dalla famiglia per evitare che la loro vita sia segnata per sempre da quelle vicende. Negli anni Miral cresce appassionandosi alla causa palestinese segue gli eventi che condurranno agli accordi di Oslo e partecipa alle manifestazioni, in una di queste perde la vita una compagna che lei stessa aveva convinto a scendere in piazza. E' l'incontro più drammatico con la violenza del conflitto che sta dilaniando la sua terra. Saranno l'esempio e il confronto con Hind ad allontanare Miral dalla tentazione dell’estremismo, tanto che, alla sua morte, la ragazza deciderà di lasciare il proprio paese: continuerà a combattere le sue battaglie, ma lo farà da lontano, da un esilio che accresce il dolore ma apre spiragli alla speranza e alla pace. Un emozionante storia di formazione, un intenso racconto con cui Rula Jebreal ci offre una testimonianza delle sue stesse esperienze attraverso lo sguardo appassionato di Miral. Un documento realistico e poetico delle aspirazioni dei giovani palestinesi, divisi come la loro terra tra il bisogno di lottare e il sogno di una pace mai raggiunta.

NOTE BIOGRAFICHE
Rula Jebreal
, araba palestinese con passaporto israeliano, è giornalista di La7. Vive a Roma con la figlia Miral.

giovedì 9 giugno 2011

Letti e riletti per noi

Terry Pratchett, un mago senza magie


di Paolo Pegoraro*

ROMA, mercoledì, 8 giugno 2011 (ZENIT.org).- Prime avvisaglie d’estate. La pausa lavorativa non appare più un miraggio irraggiungibile e si fanno progetti. Magari pure sui libri da portarsi sotto l’ombrellone o nella frescura montana, recuperando finalmente un po’ del tempo che non gli si è potuto dedicare durante l’anno. Per non partire carichi di troppe buone intenzioni – Tolstoj per la spiaggia e i Karamazov da assaporare in vetta, tornando poi puntualmente a casa con i tomi intonsi – meglio riscaldare i motori con una lettura leggera e sanamente divertente. Ma non per questo meno interessante.
Il mio consiglio è: Terry Pratchett. Sarebbe facile non prendere sul serio lo scrittore britannico dicendo che è l’inventore del genere fantasy-demenziale, un po’ meno se si aggiunge che si è portato a casa quattro lauree honoris causa e che due anni fa la Regina d’Inghilterra lo ha nominato Cavaliere per i suoi servizi alla letteratura. La sua serie più nota – quella del Mondo Disco, un universo piatto sorretto da quattro elefanti che a loro volta poggiano sul guscio di una enorme tartaruga cosmica – conta a oggi 38 volumi autoconclusivi tradotti in 37 lingue. Hanno venduto qualcosa come 65 milioni di copie.
Nel 2007 a sir Terry è stata diagnosticata una rara forma di Alzheimer precoce, in seguito alla quale lo scrittore ha donato un milione di dollari per la ricerca. In Italia sono quasi vent’anni che Pratchett appare e scompare dalle librerie. Gli editori non sanno in quale scaffale collocarlo e talvolta indicano sulla copertina un’età di lettura per ragazzi, salvo aver precedentemente tagliato, in fase di traduzione, parti che da ragazzi proprio non sono. Possibile sia tanto difficile prendere sul serio qualcuno solo perché si esprime in maniera giocosa? Il problema non sarà che ci consideriamo troppo seri per tener conto del comico? Pratchett questa lezione l’ha imparata in casa: lo scrittore è infatti nato nel 1948 a Beaconsfield, la cittadina dove trascorse la maggior parte della sua vita Gilbert K. Chesterton, al quale sir Terry ha pure dedicato un romanzo, affermando che Chesterton era «uno che sapeva quel che stava succedendo» (cfr. Buona Apocalisse a tutti!, Mondadori).
Nonostante scriva parodie di fantasy, Pratchett ha imparato dal suo illustre concittadino che l’unica magia possibile è quella di uno sguardo capace di percepire la vita come qualcosa di nient’affatto scontato, condizione strana e anormale: un caso eccezionale che merita continuamente la nostra attenzione. I suoi romanzi non sono altro che sfavillanti trasposizioni del nostro mondo in una cornice diversa, travestimenti che esaltano la bizzarria dell’esistenza e spingono a riscoprirla nascosta nei panni di una realtà sconosciuta, della quale non conosciamo le chiavi di lettura. Come se il nostro mondo ci divenisse improvvisamente alieno e ci dovessimo mettere a imparare tutto da capo: per un momento gli schemi dell’ovvio e dell’abitudine vengono spezzati, e il nostro sguardo si libra intorno a noi colmo di senso della novità.
In altre forme di magia, tipo quelle fatte di formule e oggetti arcani care alla sua compatriota J.K. Rowling, Pratchett non nutre alcuna fiducia. Nei suoi romanzi a padroneggiarla benissimo sono sempre gli avversari, mai i protagonisti. Scuotivento, uno dei personaggi più ricorrenti, è il mago più inetto e incapace del multiverso. E pure le tre streghe protagoniste di un’altra serie di avventure preferiscono impacchi d’erbe, una tazza di thè e molta esperienza di vita a sfere magiche e ammennicoli affini. Le streghe di Pratchett sono, di fatto, l’equivalente di un buon medico, di un buono psicologo e di un buon consulente familiare, ancorate alla saggezza millenaria del buon senso comune. Se prendiamo in mano Streghe all’estero (Salani) facciamo la conoscenza con un terzetto che dissolve in una risata fascinazioni Wicca e suggestioni neopagane. A capeggiarle c’è Nonna Weatherwax, una vecchia glaciale, «rigida come una barra di ghisa» e altrettanto flessibile, che «è nata buona, ma non le piace». Segue Tata Ogg, tozza e rubizza, madre di una quindicina di figli e nonna di una moltitudine di nipoti, disinibita e sboccata, amante della compagnia e del buon bicchiere. Ultima viene la giovane Magrat Garlick, incerta e alla continua ricerca di se stessa, una sognatrice che «nel boudoir rosa del suo cuore» cova ideali umanistici, massime ecologiche, interpretazioni freudiane della scopa della strega, filosofie orientali e letture disordinate che la rendono sempre più incerta. Impietoso il giudizio su di lei della Nonna Weatherwax: «una povera scema».
Streghe all’estero affronta direttamente la questione della magia: buona o cattiva? Può essere usata a fin di bene? La giovane Magrat riceve in eredità la bacchetta di una fata madrina capace di realizzare per davvero i desideri (o almeno dovrebbe: di fatto tramuta qualunque cosa in zucche arancioni). Le due “colleghe” più anziane non sono del parere di usarla, neppure a fin di bene. Non solo perché non è possibile adoperare la magia “solo per un poco”, ma soprattutto perché «non si può aiutare la gente con la magia. Non nel modo giusto». Al loro punto di vista si contrappone quello della strega Lilith – e il riferimento al mondo del demoniaco è immediato, fin dalla scelta del nome – colei che non si limita ad augurare la felicità, ma impone alle persone la felicità che secondo lei è migliore per loro. Tramuta le vite comuni in favole: da Cappuccetto Rosso al Mago di Oz, dalla bella Addormentata a Cenerentola, ella distorce le esistenze pur di realizzare l’happy end che desidera. Travestita da luminosa benefattrice, Lilith è di fatto una dittatrice che tiene lo specchio davanti alla Vita, e taglia via tutte le parti che non entrano. La città che ha plasmato a propria immagine e somiglianza – incarcerando i giocattolai che non fischiettano e gli osti che non sono abbastanza grassi – è un incubo di felicità coatta molto simile al campo di concentramento di Theresienstadt, dove i detenuti erano obbligati a dimostrare che stavano bene. «Il lieto fine – conclude Nonna Wheaterwax – va benissimo, se poi loro sono veramente felici[...] Solo gli altri possono costruire un mondo migliore per se stessi. Altrimenti è solo una gabbia». E il progresso? Non è qualcosa di più reale delle favole e più misurabile delle storie? All’obiezione, Nonna Weatherwax scrolla le spalle: «Il progresso significa solo che i guai arrivano più in fretta».

Un assaggio dell’opera
Questo è Mondo Disco, che viaggia nell’universo sul dorso di quattro elefanti in piedi sul guscio della Grande A’Tuin, la tartaruga celeste.
Un tempo un tale universo sarebbe stato considerato insolito, magari impossibile.
Ma in effetti... un tempo le cose erano molto più semplici.
Perché l’universo era pieno di ignoranza e lo scienziato vi si aggirava, chino come un cercatore d’oro sul ruscello di montagna, in cerca del tesoro della conoscenza tra la ghiaia dell’irrazionalità, la sabbia dell’incertezza e le piccole cose baffute a otto zampe della superstizione.
Di tanto in tanto si alzava e diceva cose del tipo: “Urrà, ho appena scoperto la Terza Legge di Boyle!”. E tutti sapevano a che punto si trovavano. Ma il problema fu che l’ignoranza divenne più interessante, specie quella grossa e affascinante ignoranza su questioni enormi e importanti, come la materia e la creazione, e la gente smise di costruire pazientemente le piccole casette di stecchini razionali e cominciò a interessarsi al caos: in parte perché era molto più facile essere esperti di caos, ma soprattutto perché offre ottimi spunti per i disegni sulle magliette.
E invece di occuparsi di vera scienza gli scienziati all’improvviso si misero a dire che non si poteva conoscere nulla, e che non c’era nessuna realtà da conoscere, e che tutto questo era tremendamente eccitante, e tra parentesi, lo sapevate che forse ci sono un sacco di piccoli universi ovunque, che non si vedono perché sono ripiegati su se stessi? Tra parentesi, non sarebbe una cosa favolosa da mettere su una maglietta?
A confronto di tutto questo, una grossa tartaruga con un mondo sul dorso è praticamente una cosa terra-terra. Quanto meno non finge di non esistere, e nessun abitante di Mondo Disco ha mai nemmeno tentato di dimostrare che non esiste, per paura di avere ragione e trovarsi a fluttuare nel vuoto. Questo perché Mondo Disco esiste proprio sull’orlo della realtà. Basta un nonnulla per passare dall’altra parte. Perciò, su Mondo Disco, la gente prende tutto molto sul serio.
Come le storie.
Perché le storie sono importanti. Si crede che sia la gente a creare le storie. In realtà è il contrario.
Le storie esistono indipendentemente dai loro personaggi. La conoscenza di questo fatto è potere.
Le storie, grandi nastri svolazzanti di spazio-tempo, sventolano e si srotolano nell’universo fin dall’inizio dei tempi. E si sono evolute. Le più deboli sono morte. Le più forti sono sopravvissute e sono ingrassate a forza di racconti... storie che fluttuano nell’oscurità.
E la loro esistenza maschera uno schema, vago ma insistente, che attraversa il caos: la Storia. Le storie scavano solchi profondi al punto che le persone li seguono, come l’acqua segue certi percorsi giù dai fianchi delle montagne. E ogni volta che dei nuovi attori percorrono il sentiero della storia, il solco si fa più profondo.
Questa è nota come teoria della causalità narrativa: vale a dire che una storia, una volta iniziata, prende forma. E raccoglie tutte le vibrazioni delle altre versioni di quella storia mai prodotte.
Ecco perché la Storia non fa che ripetersi.
E così mille eroi hanno rubato il fuoco agli dèi. Mille lupi hanno mangiato la nonna, mille principesse sono state baciate. Un milione di attori ignari hanno agito, inconsapevoli, lungo i sentieri della storia.
Ormai è impossibile per il terzo figlio di un qualsiasi re imbarcarsi in un’impresa già tentata dai suoi fratelli maggiori, e non riuscire.
Alle storie non interessa chi ne fa parte. Importa solo che la storia venga raccontata, e che si ripeta. Oppure, se preferite porla in altri termini: le storie sono una forma di vita parassitaria, che corrompe le vite in funzione di se stessa.
Bisogna essere dei tipi speciali per opporvisi, e diventare il bicarbonato della Storia.
C’era una volta...

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*Paolo Pegoraro (Vicenza, 1977) si è laureato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e in Letterature comparate presso l'Università "La Sapienza" di Roma. Collabora da anni alle pagine culturali di numerose riviste, tra cui L'Osservatore Romano, La Civiltà Cattolica e Famiglia Cristiana.

mercoledì 8 giugno 2011

LA FAMIGLIA NON E’ UNA MALATTIA GRAVE di Federica Storace

"Voi siete gli archi dai quali i vostri figli                        sono lanciati come frecce viventi"   (Gibran)
LA FAMIGLIA NON E’ UNA MALATTIA GRAVE di Federica Storace
Io ho 34 anni, sono sposata da 11, ho 2 bambini e anche quando mi si brucia la cena o dimentico di fare la lavatrice, sono felicissima così. Anzi, ho persino chiesto il part-time ma l’Ufficio Personale me l’ha rifiutato.
Dopo l’idillio del fidanzamento e il paradiso terrestre dei primi anni di matrimonio, fatto di nomignoli e di messaggini teneri, arrivano i figli che ribaltano completamente le prospettive del matrimonio. Il tempo comincia a mancare, il bisogno di sonno aumenta di giorno in giorno e le mamme si scatenano ad organizzare la vita familiare nei dettagli, a volte a prescindere dai mariti. L’asilo, il lavoro, la cena, le vacanze, l’amore, i soldi; e poi le colleghe single tutte firmate, che ti guardano con aria ironica per la tua scarsa frequentazione del parrucchiere e la tua voglia di part-time. Tra racconti esilaranti, episodi tragicomici ma rigorosamente veri e piccole soste per rimettere a posto le cose, questo libro racconta la cavalcata della mia famiglia: due figli, un marito ed...io!
FEDERICA STORACE è nata nel 1971. Laureata in Lettere Moderne, vive e lavora a Genova. È sposata e madre di due bambini. Questo è il suo primo libro.
LA FAMIGLIA NON E’ UNA MALATTIA GRAVE
Edizioni San Paolo

Autori emergenti - Storace Federica -

La famiglia non è una malattia grave - Federica Storace -   

IL BOOK TRAILER

Autori emergenti - Storace Federica -

Banchi di Squola - Federica Storace -
Se le vacanze così agognate sono incise dalla sentenza “Dove lasciare i bambini”, ecco finalmente ricominciare la scuola, volutamente con la q nel titolo, il luogo principe dove lasciare i figli certi che chi si occuperà di loro per lunghe ore saprà che fare, e che farsene. Ricomincia la solita, in fondo sospirata e amata, routine: “… è la volta dei grembiuli, diligentemente ordinati a giugno, in merceria, ma sempre latitanti fino all’ultimo minuto. Infine si passa in cartoleria, una, due, tre volte, a controllare se sono arrivati i libri di testo”. E perché comperare un libro, direte voi genitori, se già tutto questo lo sappiamo? Ciò che si deve sapere è come Federica sa scrivere, in modo diretto e colloquiale, lungi dal voler diventare saggio didattico, ciò che accade fuori e dentro un genitore. Condannati per come trattano o non trattano i figli, chiamati a scuola per comportamenti più o meno corretti dei piccoli pestiferi, incolpati per ogni caratteristica genetica dei mostri che si scopre giorno per giorno si è generato, ecco che qui i genitori hanno il loro specchio. Giusto per ridersi addosso e capire che non si è soli, si è un esercito.
Finalmente inizia l’anno scolastico ed ecco i primi drammi: “AVVISO. Si prega di portare, per domani, una foto e un oggetto delle vacanze. Grazie. La Maestra. Accidenti ci mancava anche questa! Pensa, rigorosamente in silenzio, la provatissima madre. Non ne posso più. Ho esaurito la pazienza già due ore fa davanti alla bacheca della scuola di tennis…”.
Ora, le foto estive sono nel computer dell’ufficio, impossibile avere le stampe per domani, ma il bambino interessato dal compito va nel panico e strilla che la foto ci dev’essere o la maestra lo avrebbe sgridato. E a questo punto la mamma pensa di ammazzare prima il figlio e poi anche la maestra.
Ordinaria amministrazione? Normale giornata genitoriale?
Ma non è finita qui. Perché poi la mamma, con i figli, va anche a casa e allora la storia non dà segni di volersi esaurire. I mesi trascorrono, lenti ma scorrono, e se la mamma si lascia rapire per un attimo, solo un attimo della sua preziosa vita, dalla Biblioteca Nazionale ospitata nel Klementinum, antico collegio gesuitico di Praga, ecco che i figli si picchiano davanti ad una fotocellula facendo scattare l’allarme. Che altro sennò?
Poi ci sono le riunioni dei genitori, poi le lezioni di catechismo e tutti che pretendono. Pretendono dai genitori. Che superino se stessi nelle corse e che si adoperino per le recite natalizie, ad esempio che papà prepari delle corna da bue, mentre il piccolo piange perché per la recita vuole le orecchie per il bue e non le corna. Vi sembra poco? Soprattutto se quando mamma e figli e salmerie al seguito (cartelle, borse per la piscina, sacchetto con le scarpe da ginnastica, il pane, un fascicolo di documenti) aspettano, il papà non arriva a prenderli al posto giusto con l’automobile perché si è dimenticato le chiavi nella borsa della moglie, facendo scatenare un diluvio di proteste e di filosofiche ramanzine, prima di entrare nei tropici della piscina e cominciare la litania delle raccomandazioni per fare bene la doccia, asciugarsi i capelli e non stare in corrente.
Naturalmente prima di leggere il tema del figlio sull’invenzione della scrittura da parte dei Sumeri e di interrogare sulle Cinque Terre, tra le quali naturalmente c’è Rovigo, mentre la Pianura Padana si chiama così perché ci fanno il formaggio Parmigiano Padano. Non è così in tutte le famiglie?
Comunque poi arrivano le vacanze e gli sventolii di pagelle come fossero il tricolore. Si sopravvive all’anno scolastico e alle ferie. L’importante è riderci su.
Da leggere. Sia che si sia genitori, sia che no.

Federica Storace: “Banchi di Squola”, Pietro Macchione Editore, Varese, 2010, pagg. 200; euro 15,00.

Articolo di Alessia Biasiolo
Le Recension

sabato 4 giugno 2011

Vincitore Bancarellino 2011

LA RAGAZZA DELL'EST
Autore: Fulvia Degl Innocenti
Editore: Edizioni San Paolo
Anno: 2011
Lilia è caduta in brutte mani e Roberto, forte della sua adolescenza e dell'aiuto del padre, tenta di tirarla fuori dai guai. Una storia importante su un tema attuale. Roberto incontra Lilia sul treno, è così bella da far pensare a un angelo. Ha uno strano accento, è straniera, forse dell'Est. Alla stazione la ragazza - così come era apparsa - scompare, lasciando dietro di sé un libro, un biglietto della lotteria e l'impressione di aver lanciato, con i suoi occhi azzurri, una richiesta d'aiuto. Roberto inizia ad indagare e si ritrova di notte per le strade di Milano, dove ci sono ragazze sperdute e lupi neri che le insidiano. È troppo tardi per tornare indietro. Sarà il padre, il grande inviato di guerra così assente dalla vita del figlio, che aiuterà Roberto a salvare Lilia. Fulvia Degl'Innocenti è una giornalista per ragazzi che lavora dal 1994 come caposervizio al settimanale "il Giornalino". Alla scrittura giornalistica ha affiancato da anni anche quella narrativa, spaziando dagli albi illustrati per i più piccoli, alla manualistica per teen agers (Io come te e Io tu noi, Edizioni San Paolo), alle filastrocche, ai racconti per bambini. Dirige dal 2004 "Il parco delle storie", una collana di narrativa per le Edizioni Paoline. La ragazza dell'Est è il suo primo romanzo per giovani adulti.

PREMIO BANCARELLA 2011

I 6 LIBRI FINALISTI DEL PREMIO BANCARELLA 2011
Da: Fondazione Citta del Libro

Milano, 24 marzo 2011 – Il Premio Bancarella ha aperto oggi la stagione dei premi letterari presentando, come ormai tradizione, nei locali di Banca Cesare Ponti a Milano, i sei i libri vincitori del Premio Selezione Bancarella 2011. A piccoli colpi di remo di Alberto Cavanna (Arte Navale), Lepanto di Alessandro Barbero (Laterza), La fine del mondo storto di Mauro Corona (Mondadori), Il romanzo dei mille di Claudio Fracassi (Mursia), Dictator – Il trionfo di Cesare di Andrea Frediani (Newton Compton) e Non chiedere perché di Franco Di Mare (Rizzoli), sono stati selezionati tra i volumi pubblicati in Italia negli ultimi dodici mesi, per aver conseguito secondo il giudizio dei librai, interpreti attenti e sensibili del gusto del pubblico dei lettori, un chiaro successo di merito e di vendita. Tra questi volumi, il 17 luglio a Pontremoli, i 200 librai grandi elettori sceglieranno il vincitore della 59ma edizione del Premio Bancarella. Una sestina tutta italiana che sembra avere la storia come filo conduttore: dai trionfi di Cesare all’analisi degli eventi che hanno portato alla battaglia in cui l’Europa cristiana inflisse ai turchi una sconfitta catastrofica, dalla “folle” impresa di “una banda di filibustieri” che ha riunito l’Italia al formidabile atto di amore compiuto sullo scenario della guerra fratricida della ex Jugoslavia, dai racconti di mare che, al passare dei secoli, ripropongono immutati i pensieri e le paure degli uomini al destino di un mondo che, consegnato nella mani incaute dell’uomo, cadrà in un gelido inverno, ma che gli stessi uomini, resi uguali dalle difficoltà, sapranno condurre ad un futuro più giusto e pacifico. Alla presentazione erano presenti, gli autori vincitori, i Direttori commerciali delle principali Case Editrici e i Librai del Bancarella. Il Prof. Giuseppe Benelli, Presidente della Fondazione Città del Libro di Pontremoli ente organizzatore del Premio, nel presentare i volumi ha annunciato che quest’anno in occasione del Premio Bancarella, dal 9 al 17 luglio, Pontremoli sarà animata da una serie di eventi, che saranno denominati “9 giorni di libri”, con una fiera del libro, incontri culturali e promozione del territorio anche attraverso la degustazione di prodotti tipici. Il segretario del Premio Enrico Polverini ha annunciato che i Librai hanno conferito l’incarico di Presidente del Premio per l’edizione 2011 a Gianrico Carofiglio, vincitore dell’edizione 2005 con il volume Il passato è una terra straniera edito da Rizzoli, quale giusto riconoscimento per la sua carriera e per il successo riportato dai suoi innumerevoli romanzi che hanno avuto parte fondamentale nella promozione del libro e della lettura. Il Premio Bancarella nasce dalla tradizione dei Librai Pontremolesi che, unici in Italia, già alla fine del ‘700 partirono dall’alta Lunigiana, terra di grande emigrazione, dal paese di Montereggio, per portare, con le loro gerle, i libri nelle città e nei paesi della pianura Padana e poi, di generazione in generazione, capillarmente in tutta l’Italia del nord, dove ancora oggi gestiscono importanti librerie dagli storici nomi: Tarantola, Lazzarelli, Giovannacci, Lorenzelli, Bertoni per citarne soltanto alcuni. Nell’agosto del 1952 si svolse il primo raduno dei Librai Pontremolesi, a cui parteciparono scrittori, editori e uomini politici, come l’allora ministro Giovanni Gronchi, e l’editore Valentino Bompiani, e dove si decise di dare vita al Premio Bancarella, gestito esclusivamente dai librai. Nel 1953 fu assegnato il primo Bancarella a Ernest Hemingway con "Il vecchio e il mare", anticipando per la prima volta il Nobel; le altre due volte saranno Pasternak, con "Il dottor Zivago", e Singer, con "La famiglia Moscat". Il premio ha visto crescere il numero degli elettori, per estendere alle librerie di tutto il territorio nazionale la scelta del volume vincitore, ma non ha mutato la sua natura: è un premio popolare, non assegna riconoscimenti in denaro e la scelta del vincitore è affidata unicamente ai librai, importante tramite tra il lettore e lo scrittore. Il Collegio degli Elettori, composto da 200 librai indipendenti italiani, esprimerà, presso un notaio, la propria preferenza tra i sei libri selezionati. Il pubblico, in una vera e propria festa popolare nella Piazza della Repubblica di Pontremoli la sera del 17 luglio alle 21.00, seguirà in diretta lo spoglio dei voti da parte del notaio.
SETTANTA ACRILICO TRENTA LANA
Libro candidato al Premio Strega 2011 e vincitore del Premio Campiello Opera Prima 2011
Leggere questo romanzo della scrittrice esordiente Viola Di Grado, appena ventitreenne, è un piacere ed un shock emotivo allo stesso tempo; un piacere, tale è la sua capacità di costruire un linguaggio veramente innovativo, di rompere gli stereotipi linguistici a cui ci siamo abituati, di inventare forme nuove di comunicazione verbale e non, servendosi di diverse lingue, diversi alfabeti, diverse posture, diversa gestualità; uno shock, tanto la storia e la materia affrontate sono dure, violente, trasgressive, insopportabili talvolta.
Il racconto è quasi inesistente: è la storia di Camelia e di sua madre Livia, nella gelida città di Leeds, in Inghilterra, dove le due sono emigrate al seguito del padre di Camelia, un giornalista ambizioso, che presto trascura la moglie per intrattenere una relazione con una donna inglese, Liz Turpey, insieme alla quale troverà la morte in un incidente d’auto. E da qui parte la tragedia che percorre tutta la storia, poichè Camelia e sua madre finiscono in un gorgo di follia autodistruttiva. Livia, musicista suonatrice di flauto, si lascia andare ad un mutismo e smette di vivere, di mangiare, di suonare, di lavarsi, comunicando con la figlia solo con sguardi carichi di significati noti soltanto a loro. Camelia tenta di arginare la follia silenziosa della madre, ma cade a sua volta in una specie di delirio di violenza: rompe, taglia, sminuzza, amputa vestiti, fiori, oggetti. L’incontro casuale con Wen, un giovane cinese che vuole insegnarle la sua lingua, sembra aprire alla ragazza una via di uscita dal delirio in cui sta precipitando: gli ideogrammi cinesi, il fascino delle chiavi di comunicazione di quella lingua misteriosa sembrano offrire a Camelia una sorta di riscatto fornito da Wen, del quale crede di essersi innamorata. Ma Wen si sottrae alle attenzioni erotiche della giovane donna, che finisce nelle braccia del misterioso fratello di lui, Jimmy. Qui la storia si complica, ma in realtà ciò che sta davvero a cuore a Camelia è il rapporto con sua madre. Costretta dalla figlia a frequentare una scuola di fotografia, Livia ritrova la sua identità, la sua celestiale bellezza, lo splendore dei suoi capelli biondi: ha incontrato un bellissimo uomo, Francis, che si è innamorato di lei e che vuole sposarla. Pronta a partire con lui e dimentica di Camelia e di tutto ciò che la ragazza ha fatto per riportarla alla normalità, Livia provoca nella figlia una reazione violenta con cui l’autrice decide di chiudere questo strano e coinvolgente romanzo.
Al di là della storia incentrata sul solito contrasto amore/odio tra madre e figlia, la peculiarità di questo esordio felice sta nell’uso di un linguaggio sperimentale efficace e intrigante. Ecco allora disseminate nel testo una serie interminabile di figure retoriche:
- la parola chiave del testo, buco, che viene ripetuta infinite volte nelle sue diverse accezioni (il buco dove è morto suo padre, il buco da cui ha origine l’uomo, il buco nel tavolo da pranzo, il buco nelle foto della madre, il buco nel soffitto, un film dal titolo “The hole”, il buco, appunto, il tatuaggio che si fa incidere nel corpo con l’ideogramma cinese che vuol dire buco, ecc);
- continue sinestesie (“dissi uno sguardo di saluto”; ”sverginare il mio silenzio”);
- allitterazioni, come “Blu-pavone blu-acciaio blu-fiore di granturco blu-alice blu-polvere blu-di-Persia” o anche “Forse italiano Forse cinese Forse lingua degli sguardi Forse lingua dei sorrisi Forse la lingua di Jimmy che mi spazza la faccia”;
- l’uso insolito dell’iperbole, sorriso sorrisissimo, guance guancissime, corpo corpissimo, piedi piedissimi;
- accumulazioni, come ad esempio l’elenco di un numero imprecisato di nomi di fiori: fucsie, margherite, crisantemi, papaveri, gerbere, garofani, gigli, gladioli, rose, gardenie, che sono un simbolo della natura che a Leeds sembra non poter esistere e che Camelia (nome di fiore!) decapita, strozza, ghigliottina, distrugge, ammazza, mutila, sbriciola, schiaccia sotto gli anfibi. E che fa pensare ad una natura di plastica, acrilica appunto, come afferma con violenza Camelia:
“E’ una storia vera senza morale che comincia dalle mie forbici e finisce sull’acrilico fiore di tutte le maglie fortunate”
E poi inserimenti di cinema, musica, spettacoli televisivi, Simenon, John Lennon, Casta Diva, Morte a Venezia, Bijork. La giovane scrittrice mostra di saper maneggiare un testo letterario con decisione ad autorevolezza, usando tutti gli strumenti di una lingua sempre più globalizzata e ibridata, e questo fa ben sperare, dato il panorama piuttosto convenzionale e poco innovativo che molta narrativa italiana attuale sembra proporre.                                                        

Recensione a cura di Elisabetta Bolondi

Premio Campiello Letteratura

Maria Pia Ammirati, Ernesto Ferrero, Giuseppe Lupo, Federica Manzon e Andrea Molesini sono i cinque finalisti della 49° edizione del Premio Campiello Letteratura
pubblicato il 30/05/2011
Assegnato a Viola Di Grado per il romando "Settanta acrilico trenta lana" il riconoscimento Campiello Opera Prima.

(Padova, 28 maggio 2011) - Sono stati selezionati oggi a Padova i finalisti della 49° edizione del Premio Campiello Letteratura - Confindustria Veneto. Un affollatissimo parterre ha atteso il risultato della votazione della Giuria dei Letterati, presieduta quest’anno dal Segretario Generale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali Roberto Cecchi, e composta da Gianluigi Beccaria, Riccardo Calimani, Philippe Daverio, Giordano Bruno Guerri, Nicoletta Maraschio, Salvatore Silvano Nigro, Ermanno Paccagnini, Silvio Ramat, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo e Annamaria Testa. Quest’anno la Giuria ha concentrato l’attenzione per la scelta dei cinque finalisti e per l’assegnazione del Premio Campiello Opera Prima su una rosa di 52 libri, tra i 180 romanzi pervenuti alla segreteria del Premio (di cui 73 opere di scrittori esordienti).
Allineato fin da subito il giudizio della Giuria tanto che ci sono volute solo due votazioni per arrivare alla scelta della cinquina finalista. Al primo giro di voto sono stati selezionati: con 9 preferenze Ernesto Ferrero per il romanzo “Disegnare il vento” (Einaudi), con 8 voti Giuseppe Lupo per il romanzo “L’ultima sposa di Palmira” (Marsilio), con 7 voti Maria Pia Ammirati per “Se tu fossi qui” (Cairo Editore), con 6 voti Federica Manzon per “Di fama e di sventura” (Mondadori). Al secondo giro, dove ciascun giurato poteva esprimere una sola preferenza, con 6 voti è entrato Andrea Molesini con il romanzo “Non tutti i bastardi sono di Vienna” (Sellerio).
“Sono particolarmente lieto e onorato di presiedere la Giuria dei Letterati, un’esperienza per me molto importante e ricca di emozioni” – ha dichiarato Roberto Cecchi aprendo i lavori – “il Campiello è la saldatura ideale tra il patrimonio identitario e lo sviluppo culturale del Paese”.
E’ stato affidato a Ermanno Paccagnini, il compito di tracciare le linee di tendenza di questa annata letteraria:“credo di poter dire che i libri arrivati rispecchino abbastanza fedelmente la situazione attuale, per gran parte all’insegna di una produzione standardizzata, nella quale comunque si possono rinvenire una serie di opere letterariamente e narrativamente dignitose e anche qualcosa in più, pur senza attingere proprio al così detto capolavoro. Nulla di nuovo rispetto al recente passato; e anche in questo spesso le sorprese vengono dai giovani, si tratti di opere prime assolute o di prime esperienze nella narrativa lunga. Quanto ai temi prevalenti, ove si dimentichi la diffusione incontrollata dei gialli, solo raramente vivificati dall’ironia, prevalgono ancora la storie familiari. Ricco è anche il quadro della narrazione intorno a figure storiche o letterarie o ad avvenimenti storici, in ciò supportati anche dal 150enario dell’Unità. Ed è qui che si registra una vivacità affabulatoria, che talora travalica la storia per entrare in un fascinoso passato letto come mito”.
“Il Campiello in questi anni ha dato un significativo contributo alla promozione e alla visibilità di tanti autori e romanzi” - ha dichiarato il Presidente della Fondazione Il Campiello, Andrea Tomat - “Ci auguriamo che il nostro Premio possa diventare più incisivo, soprattutto nel coinvolgere sempre più persone ad appassionarsi alla lettura. La Cultura rappresenta un fattore determinante di sviluppo sociale, civile ed economico di una comunità. E’ una delle fondamenta sui cui ridefinire i tratti di una rinnovata identità nazionale”. Alessandra Pivato, Presidente del Comitato di Gestione del Premio, ha evidenziato le qualità di “un premio sano, attento alla tradizione ma aperto ai cambiamenti, e a promuovere nuovi talenti letterari”.
E proprio al libro di esordio di Viola Di GradoSettanta acrilico trenta lana” (edizioni E/O) la Giuria dei Letterati ha deciso di assegnare il riconoscimento Premio Campiello Opera Prima, con la seguente motivazione: “si impone subito per l’invenzione linguistica, spinta fino alla visionarietà. L’ambientazione in un quartiere periferico di Leeds, perennemente e tristemente invernale, tra personaggi tutti al limite della normalità, giustifica l’oltranza linguistica. Si capisce che il romanzo è di una spiccata originalità ed è contemporaneamente racconto di una non comune crudeltà. Per essere l’opera prima di una giovanissima scrittrice il romanzo è di grande maturità sia per struttura che per costruzione linguistica”.
Spetta ora alla Giuria dei Trecento lettori, i cui nomi si consoceranno solo sabato 3 settembre, data della Cerimonia di premiazione del Premio Campiello, la scelta del vincitore.

La realizzazione di questa edizione del Premio, è sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica ed il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, riceve il patrocinio e l’apporto della Regione Veneto ed è resa possibile grazie al concorso di Assicurazioni Generali, Banca Popolare di Vicenza, ManpowerGroup, Casinò di Venezia, Eni, Enel, Veronafiere, Terna e Koiné gruppo HCI. Media partner: Gruppo 24 Ore.

Premio strega 2011

Ecco i 12 libri candidati ufficiali per il Premio Strega 2011, alla data del 15 aprile 2011. Ecco i 12 candidati definitivi per il Premio Strega 2011:
- Ternitti (Mondadori) di Mario Desiati
- Settanta acrilico trenta lana (e/o) di Viola Di Grado
- Nel mare ci sono i coccodrilli (B.C.Dalai editore) di Fabio Geda
- Malabar (Guida) di Gino Battaglia
- Storia della mia gente (Bompiani) di Edoardo Nesi
- L’energia del vuoto (Guanda) di Bruno Arpaia
- Nina dei lupi (Marsilio) di Alessandro Bertante
- La scoperta del mondo (Nottetempo) di Luciana Castellina
- Il confessore di Cavour (Manni) di Lorenzo Greco
- La città di Adamo (Fazi) di Giorgio Nisini
- A cosa servono gli amori infelici (Playground) di Gilberto Severini
- La vita accanto (Einaudi) di Mariapia Veladiano