giovedì 27 settembre 2018

Vincitore del Premio Strega 2018

             
   Descrizione



Vincitore del Premio Strega 2018
Vincitore del Premio Bagutta 2018
Finalista al Premio Campiello 2018


Questo libro racconta la vita di questa ragazza ribelle, l'amore con Robert Capa, l'avventura di fotografare e la gioia di vivere nella Parigi degli anni Trenta.

Il 1° agosto 1937 una sfilata piena di bandiere rosse attraversa Parigi. È il corteo funebre per Gerda Taro, la prima fotografa caduta su un campo di battaglia. Proprio quel giorno avrebbe compiuto ventisette anni. Robert Capa, in prima fila, è distrutto: erano stati felici insieme, lui le aveva insegnato a usare la Leica e poi erano partiti tutti e due per la Guerra di Spagna. Nella folla seguono altri che sono legati a Gerda da molto prima che diventasse la ragazza di Capa: Ruth Cerf, l’amica di Lipsia, con cui ha vissuto i tempi più duri a Parigi dopo la fuga dalla Germania; Willy Chardack, che si è accontentato del ruolo di cavalier servente da quando l’irresistibile ragazza gli ha preferito Georg Kuritzkes, impegnato a combattere nelle Brigate Internazionali. Per tutti Gerda rimarrà una presenza più forte e viva della celebrata eroina antifascista: Gerda li ha spesso delusi e feriti, ma la sua gioia di vivere, la sua sete di libertà sono scintille capaci di riaccendersi anche a distanza di decenni. Basta una telefonata intercontinentale tra Willy e Georg, che si sentono per tutt’altro motivo, a dare l’avvio a un romanzo caleidoscopico, costruito sulle fonti originali, del quale Gerda è il cuore pulsante. È il suo battito a tenere insieme un flusso che allaccia epoche e luoghi lontani, restituendo vita alle istantanee di questi ragazzi degli anni Trenta alle prese con la crisi economica, l’ascesa del nazismo, l’ostilità verso i rifugiati che in Francia colpiva soprattutto chi era ebreo e di sinistra, come loro. Ma per chi l’ha amata, quella giovinezza resta il tempo in cui, finché Gerda è vissuta, tutto sembrava ancora possibile.

lunedì 24 settembre 2018

A proposito di animali cambiando ambito...



Appena ieri


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Nel nome di una promessa. Isacco è ancora giovane, è infervorato dalla fede, è sionista e se ne vanta, non ha nulla da nascondere, lui. Israele è la sua meta, la sua fede, la sua ossessione. Presumibilmente siamo all'inizio del Novecento. Dalla lontana Galizia si mette in moto, per lunghi giorni di viaggi in treno per poi arrivare a Trieste e salpare. Finalmente dopo un viaggio non certo rilassante, ecco l’agognato sogno che si fa realtà. Terra, Israele, finalmente. “Un'oasi di beatitudine, immaginava fosse allora quella terra, e benedetti dal Signore coloro che vi dimoravano”. Ma sin dalle prime ore a Giaffa ecco che i sogni si sgretolano, i fervori non si spengono ma cominciano a porre inquietanti dubbi, la realtà non è paradisiaca, anzi. Vi è un'avidità diffusa ed un avaro senso di fratellanza. Difficile trovare lavoro, quasi sempre appannaggio degli, arabi, difficile mangiare che i cibi sono così diversi e apparentemente immangiabili, difficile comunicare, ché si parlano molti dialetti e ciascuno è geloso del proprio e poi spesso c’è poco da dirsi, gli indigeni sberleffano i nuovi arrivati e i nuovi arrivati si guardano spesso in cagnesco, sapete com’è, la fame morde e il lavoro poco, pochissimo. Isacco ragiona, Isacco ha una fede incrollabile ed incontrovertibile, ma è dura e a nulla lo aiuta la sua attività onirica che ora ammonisce, ora redarguisce, insomma sempre lo indirizza, controlla, vigila come un angelo custode. Ma non sempre poi le cose vanno male, c’è del cuore anche in quella lontana terra che ogni giorno disvela segreti non sempre piacevoli, non tutto è lindo e candido come era stato dipinto, non basta essere fieri di sentirsi ebrei e conoscere le scritture, gli uomini rimangono uomini, coi pregi d i difetti, di qualunque razza o religione essi siano. Ma Isacco è tenace, incontrerà prima l'amore nelle due donne agli antipodi, Sonia e Shifra,  e poi il cane Balac (ovvero cane, in ebraico, letto all’incontrario) che pensa e ragiona come un uomo e certo non ha peli sulla lingua, sarà acuto quadrupede censore dei costumi non sempre elogi delle genti di quella terra non ancora al centro di drammatici conflitti, ma che sta gettando le basi per il suo futuro non sempre radioso e pacioso…

“Però certo che se solo vivere qui in Terra d’Israele fosse bello come era stato il viaggio per venire qui”. Con evidenti richiami alla tradizionale “letteratura rabbinica” e alla Bibbia, con registro binario che va legando tono epico e molta ficcante ironia, si evidenziano nel libro i due caratteri che a detta di molti connotano la letteratura di Agnon, un tendenza mistica imprescindibilmente marcata da spigolature umoristiche se non sarcastiche. Affiora certo un certo vagheggiamento di un passato spirituale intonso e memorabile, infangato ora dalle necessità impellenti, aride  e terrene dell'oggi. Il dissidio temporale/filosofico è altresì spesso filtrato da una dimensione onirica,d ove spesso i sogni permeano la narrazione fin quasi a dominarla. Romanzo di impianto sicuramente classico, anche per una sua certa schematicità e tendenza al didascalismo esemplificativo, che per la sua corposa mole e il suo dispiegarsi in decenni ricorda le maestose saghe specie francesi e russe dell'Ottocento e dove anche se il protagonista è essenzialmente solo uno, il testardo quasi ingenuo Isacco Kumer, si narra in realtà, come detto già nella prime pagine, delle vicende di un'intera generazione , quella della cosiddetta seconda ondata immigratoria verso le terre promesse e dove anche le città dove essenzialmente si svolge la vicenda,. Gerusalemme e Giaffa, sono in realtà metafore e simboli di due modi di interpretare la religione, la vita, il mondo e  la storia, come così i due amori del Kumer sono inscindibilmente legate alle loro due terre d'origine, aspetti bipolari di un'unica realtà variegata e che presenta diverse sfaccettature. Shmuel Yosef Agnon (1888-1970), pseudonimo di Yosef Czaczkes, ebreo di origine galiziane, Nobel per la Letteratura nel 1966, è considerato uno dei maggiori narratori israeliani. Prova ne siano tra l'altro, la logorroica e deferente introduzione alla presente edizione scritta dal romanziere Abraham B. Yehoshua e il fatto che l'altro celebre scrittore israeliano Amos Oz racconta di Agnon nella sua fluviale autobiografia Storie d'amore e di tenebra.

domenica 23 settembre 2018

A proposito di animali restando in ambito poliziesco...

...troviamo Muchtar, il coraggioso, leale e intelligente cane poliziotto protagonista di un romanzo di Izrail Metter, che è al tempo stesso il racconto di avventure appassionanti e spericolate, il resoconto della complessa amicizia tra il cane e il suo addestratore, la denuncia dell’ottusità burocratica nell’Unione sovietica. Merita di essere riscoperto insieme alle altre opere di Metter, un autore capace di raccontare, in modo sottile quanto profondo, le esistenze individuali attraversate dalla storia

A proposito di animali nella letteratura

La letteratura mondiale abbonda di animali ad ogni latitudine e in ogni coloritura.

Alcuni esempi:

Delitti bestiali Copertina flessibile – 11 ott 2000

venerdì 21 settembre 2018

Premio Campiello 2018



Premio Campiello 2018

Le assaggiatrici di Rosella Postorino - Feltrinelli


Rosella Postorino (Reggio Calabria, 1978) è cresciuta in provincia di Imperia, vive e lavora a Roma. Ha esordito con il racconto In una capsula, incluso nell'antologia Ragazze che dovresti conoscere (Einaudi Stile Libero, 2004). Ha pubblicato i romanzi La stanza di sopra (Neri Pozza, 2007; Feltrinelli, 2018; Premio Rapallo Carige Opera Prima), L’estate che perdemmo Dio(Einaudi Stile Libero, 2009; Premio Benedetto Croce e Premio speciale della giuria Cesare De Lollis) e Il corpo docile (Einaudi Stile Libero, 2013; Premio Penne), la pièce teatrale Tu (non) sei il tuo lavoro (in Working for Paradise, Bompiani, 2009), Il mare in salita (Laterza, 2011) e Le assaggiatrici (Feltrinelli, 2018). È fra gli autori di Undici per la Liguria (Einaudi, 2015).

Quarta di copertina
Fino a dove è lecito spingersi per sopravvivere? A cosa affidarsi, a chi, se il boccone che ti nutre potrebbe ucciderti, se colui che ha deciso di sacrificarti ti sta nello stesso tempo salvando?
La prima volta che entra nella stanza in cui consumerà i prossimi pasti, Rosa Sauer è affamata. “Da anni avevamo fame e paura,” dice. Con lei ci sono altre nove donne di Gross-Partsch, un villaggio vicino alla Tana del Lupo, il quartier generale di Hitler nascosto nella foresta. È l’autunno del ’43, Rosa è appena arrivata da Berlino per sfuggire ai bombardamenti ed è ospite dei suoceri mentre Gregor, suo marito, combatte sul fronte russo. Quando le SS ordinano: “Mangiate”, davanti al piatto traboccante è la fame ad avere la meglio; subito dopo, però, prevale la paura: le assaggiatrici devono restare un’ora sotto osservazione, affinché le guardie si accertino che il cibo da servire al Führer non sia avvelenato.
Nell’ambiente chiuso della mensa forzata, fra le giovani donne s’intrecciano alleanze, amicizie e rivalità sotterranee. Per le altre Rosa è la straniera: le è difficile ottenere benevolenza, eppure si sorprende a cercarla. Specialmente con Elfriede, la ragazza che si mostra più ostile, la più carismatica. Poi, nella primavera del ’44, in caserma arriva il tenente Ziegler e instaura un clima di terrore. Mentre su tutti – come una sorta di divinità che non compare mai – incombe il Führer, fra Ziegler e Rosa si crea un legame inaudito.
Rosella Postorino non teme di addentrarsi nell’ambiguità delle pulsioni e delle relazioni umane, per chiedersi che cosa significhi essere, e rimanere, umani. Ispirandosi alla storia vera di Margot Wölk (assaggiatrice di Hitler nella caserma di Krausendorf), racconta la vicenda eccezionale di una donna in trappola, fragile di fronte alla violenza della Storia, forte dei desideri della giovinezza. Come lei, i lettori si trovano in bilico sul crinale della collusione con il Male, della colpa accidentale, protratta per l’istinto – spesso antieroico – di sopravvivere. Di sentirsi, nonostante tutto, ancora vivi.

martedì 8 marzo 2016

GIOVENTÙ bruciata nella Berlino hitleriana

A leggere le note che accompagnano questo crudo romanzo tedesco degli anni Trenta del secolo scorso ( Fratelli di sangue, Fazi, pp. 206, euro 17) pare che il problema sia la mancanza di immagini dell’autore nei risguardi di copertina. In effetti di Ernst Haffner non si sa nulla. Ricompare, dopo che il suo libro è stato bruciato nei roghi nazisti e l’archivio del primo editore distrutto, per i tipi di una piccola casa editrice tedesca, la Metrolit di Berlino nel 2013 (ora ben tradotto da Madeira Giacci per Fazi Editore), come autore senza volto di un solo libro.
Romanzo di strada e di amicizia, quella dura e inscalfibile della marginalità giovanile che si autoalimenta e orgogliosa corre per vicoli e stradine di una Berlino esplorata negli anfratti più reconditi e puzzolenti. La fame, l’abbandono, la derelizione di un gruppo di ragazzini, gli stessi che verranno inquadrati come Pimpfe (pivelli) e Jungmädel (fanciulle) nella Gioventù hitleriana solo qualche mese dopo, e che sopravvivono tra correzionali ed espedienti criminogeni, fino alla dissoluzione. Già vecchi quando raggiungeranno la maggior età che dagli istituti di rieducazione li porterà direttamente al carcere, passando per prostituzione, alcol, risse ed espedienti della sopravvivenza urbana. La critica americana e tedesca ha esaltato la crudezza del linguaggio, quel suo andare dritto allo stomaco del lettore che trova in questi personaggi, intagliati nel legno duro delle situazioni di vita, di che pensare. E in effetti la straordinarietà del romanzo sta proprio nella sua assoluta mancanza di commento. Il narratore non esprime alcun giudizio sui comportamenti dei ragazzi. Sono mossi dalla fame, dal freddo, dall’orrore di una società che si disgrega, che non offre loro neppure le quinte della rappresentazione, falsa, ma pur sempre una consolazione, di possibile salvezza. Sembra quasi trattarsi della trasposizione letteraria dell’avalutatività dello scienziato sociale di weberiana memoria. Il racconto è sospeso in un’atmosfera frenetica nella quale la banda, i “Fratelli di sangue” («Jugend auf der Landstrasse Berlin » il titolo originale della prima stampa a opera dell’editore Bruno Cassirer, gioventù di Berlino sulla strada), non può far altro che adeguarsi, in un susseguirsi di fughe, rincorse, incontri e separazioni, che mimano, al contrario, la stessa frenesia della società ufficiale, quella di sopra, quella che si appresta a delegare al Terzo Reich il compito, illusorio, di liberarsi dalla miseria e dall’abominio. Nelle pagine di Haffner non ci sono analisi, spiegazioni; non vengono tratteggiati gli esiti di scelte economiche, di politiche sociali, di questo o quel partito, di questa o quella corrente culturale; non ci sono i destini traditi della nazione a giustificare o a spiegare il degrado. Mancano del tutto i giudizi sul momento storico della Germania. È assente la Kultur, e la Zivilisation è ridotta a quella dei topi, ben semplificata dal grande addomesticatore di ratti che fa scivolare con un fischio minuscoli topini bianchi da una manica per farli rientrare, dopo i saluti del caso, nei risvolti dei pantaloni, al modico prezzo di un piatto si salsiccia e una pinta di birra. Una delle scene più raccapriccianti del libro, per quanto vivida scorre in essa il senso della perfetta simbiosi tra uomo e animalità realizzatasi nella Berlino dei quegli anni. Così come l’ossessione del mangiare. Non c’è pagina, delle duecento del libro, che si leggono d’un soffio, nella quale non compaiano salsiccie, glasse, patate, birre e intingoli sui tavoli malfermi delle bettole più luride e scassate. Unite alla musica assordante delle bande di ottoni e tamburi, sembrano annunciare il repulisti prossimo della Hitlerjugend. Non passerà che qualche anno, forse solo qualche mese, e quei tamburi verranno messi insieme, accordati al ritmo della parata ripresa da Leni Riefenstahl nell’agosto del 1936 allo Stadio olimpico di Berlino. Ma c’è della letteratura in queste pagine? Certo, se le paragoniamo a quelle di romanzi come Berliner Alexanderplatzdi Alfred Döblin o Una giovinezza in Germania di Ernst Toller, o addirittura alle ambientazioni cabarettistiche del Brecht dell’Opera da tre soldi, solo per fare qualche esempio, la risposta sarebbe negativa. Ma quanto alla realtà, meglio, alla verità della realtà rappresentata, siamo in presenza di un documento tagliente e sottile come una lama, che colpisce il cuore del lettore proprio perché, a differenza di altri, evita qualsiasi enfasi retorica o stilizzazione ideologica. Non solo, ma la rottura con la grande matrice del romanzo tedesco, il Bildungroman, il romanzo di formazione, quello da cui lettori e personaggi, per non parlare dell’io narrante, si trovano alla fine migliori e riappacificati, quasi appagati dalle peripezie attraversate, non potrebbe essere più assoluta. E da questo punto di vista nelle vicende dei ragazzi di Berlino non si conserva alcuna speranza, non vi è riposo possibile per la macchina della sopravvivenza che i loro corpi maci-lenti, ma pur sempre forti, sono costretti ad alimentare. Ipnotizzati dall’attesa dell’uragano la società dei fratelli di sangue aspetta solo che il fuoco si riversi sulla sua pelle e nel frattempo appoggia i gomiti sul tavolo unto di una bettola mentre ascolta la voce di una cantante che non è ancora diventata per tutti Marlen Dietrich. (tratto da Avvenire del 06/03/2016) © riproduzione riservata