mercoledì 19 ottobre 2011

Francesco Giubilei, un editore di 18 anni

Francesco Giubilei, meglio conosciuto come il “baby-editore“, è un ragazzo che a soli 18 anni è già direttore di una casa editrice, la Historica Edizioni di Cesena in provicia di Forlì. La Historica Edizioni pubblica romanzi di viaggio, narrativa e saggi ed ha già all’attivo ben 23 titoli pubblicati in soli due anni.

Abbiamo incontrato Francesco Giubilei durante il Pisa Book Festival e quello che abbiamo trovato è un ragazzo semplice, un tranquillo giovane di 18 anni se non fosse ovviamente per il suo amore verso i libri. Molti ragazzi della sua età purtroppo si avventurano soltanto nelle letture obbligatorie di scuola.

Francesco invece, come ci ha confessato, apriva di nascosto sotto al banco i suoi romanzi preferiti. Amante della narrazione in ogni sua forma Francesco legge varie tipologie di romanzo avventurandosi sia in titoli classici che in titoli di ultima pubblicazione anche se, ammette, non ama molto la poesia.

Gli abbiamo chiesto perchè ha deciso di intraprendere così giovane la strada dell’editoria e lui giustamente ha risposto “per passione”. Una passione tanto grande quella di Francesco che non è riuscita a rimanere reclusa nell’astratto mondo dei desideri ma che si è concretizzata in questa fiorente realtà editoriale.

Finito il liceo scientifico Francesco Giubilei si è iscritto alla facoltà di Lettere Moderne. Non sappiamo se la sua casa editrice riuscirà ad ingrandirsi e diventare ancora più importante ma la cosa certa è che la strada di un ragazzo come Francesco Giubilei non poteva che essere immersa nei libri. Non possiamo che fargli i nostri più grandi auguri. (fonte libriblog.com)

lunedì 10 ottobre 2011

da Avvenire del 07/10/2011

Tranströmer, il poeta e l'angelo della vita


Era da tempo che il nome del poeta svedese Tomas Tranströmer circolava tra i favoriti al Nobel per la letteratura, sostenuto anche da grandi nomi che il premio l’hanno vinto, come Derek Walcott, o che sono stati candidati al prestigioso riconoscimento, come Mario Luzi, che nel 1999 ha fortemente voluto e sollecitato la prima traduzione delle sue poesie in Italia, ad opera di Giacomo Oreglia, che gli aveva fatto conoscere Tranströmer. Il premio è meritatissimo ed è anche un segnale per i lettori, come a dire che la letteratura scandinava non è solo "giallo", ma c’è anche una forza e una bellezza che va ad indagare sulle grandi domande dell’esistenza. Lo ricorda anche l’editore Crocetti che ha pubblicato nel 2001 la raccolta Poesia dal silenzio e che ieri ha annunciato: «Stiamo pubblicando un piccolo volumetto di haiku, intitolato Il grande mistero. Tranströmer è il poeta della metafora. La sua capacità è quella di prendere e scombinare elementi della realtà quotidiana ricomponendoli in una forma diversa. Tutto viene ricondotto nella sfera dell’interiorità».

È una poesia, quella dello svedese, che si muove tra malinconia e ricerca di infinito, stando in ascolto di quelli che sono i movimenti interiori dell’anima umana, una poesia che si costruisce da sé, quasi in una trasfigurazione delle percezioni raccolte dalla vita. Anche gli Accademici svedesi parlano, nella motivazione, di come «attraverso le sue immagini condensate e translucide abbia offerto un nuovo accesso alla realtà». Una poesia che trova un proprio riferimento anche nella musica, un altro grande interesse dell’autore: lo sta a dimostrare l’omaggio che viene fatto a Liszt in una raccolta degli anni Novanta, tradotta in italiano da Herrenhaus nel 2004, La gondola lugubre, a cura di Gianna Chiesa Isnardi che sottolinea come «il viaggio poetico sulla lugubre gondola è una sorta di riassunto della vita. Un viaggio che, come suggerisce il poeta, va fatto nel silenzio».

Nato nel 1931 a Stoccolma, Tomas Tranströmer è cresciuto da solo con la madre. Si è laureato in psicologia nel 1956 e ha iniziato a lavorare, per scelta, in un istituto per minorenni disadattati nel 1960. Ha così sempre condiviso l’attività di scrittore e quella di psicologo, lavorando con disabili, carcerati e tossicodipendenti e, al contempo, affermandosi come uno dei poeti di area scandinava più significativi a livello internazionale. Nel discorso che ha tenuto in Italia, nel 2004, quando gli è stato assegnato il Premio Nonino, ha detto: «Nella mia scrittura ci sono poesie che sono nate in un tempo brevissimo, quasi mi fossero state dettate dall’inconscio; ci sono poesie che sono nate attraverso processi lunghi e difficili, e ci sono poesie che non sono mai decollate, restando solo ambiziosi esperimenti. Ma è anche difficile sapere che cosa si intende per scrivere in generale. È in atto dentro di noi un costante processo di scrittura e non c’è bisogno che approdi sulla carta».

Nel 1990 viene colpito da un ictus che gli toglie la possibilità di parlare e da allora vive su una sedia a rotelle, con accanto una figura straordinaria che Crocetti definisce come «una moglie devotissima con la quale comunica e scrive le cose che lui le detta nel loro linguaggio». La sua testimonianza in questo senso diventa esemplare come possibilità di superare difficoltà e dolori. Dice sempre il poeta: «Dentro di me continua uno scrivere costante, ma quello che arriva oggi sulla carta sono poesie molto brevi, concentrate, come quelle in forma di haiku con le loro 17 sillabe». E per spiegare come l’afasia non abbia compromesso la sua forza creativa cita l’esempio di una poesia che aveva scritto molti anni prima, dedicata al musicista russo Shebalin, anch’egli colpito da afasia, ma che continuava a comporre. Anch’egli dunque continua a scrivere e suona il pianoforte ogni giorno, usando la mano sinistra.

Il Nobel di quest’anno, giocato in casa, invita a scoprire un poeta che volge lo sguardo tra realtà e metafisica, che afferma ancora: «Con la poesia voglio chiarire a me stesso il mistero della vita, voglio descrivere in modo chiaro quegli aspetti della realtà che io vivo e sento come misteriosi», Un poeta che ha molto amato l’Italia, tanto da sceglierla come meta per il viaggio di nozze, in una Venezia in cui viene abbracciato da «un angelo senza volto» che gli sussurra: «"Non vergognarti di essere uomo, sii fiero! / Dentro di te si aprono volte su volte all’infinito / Tu non sarai mai finito e tutto è come deve essere"».

Fulvio Panzeri

venerdì 7 ottobre 2011

Volere e Volare

di Mario Gargantini*



ROMA, venerdì, 7 ottobre 2011 (ZENIT.org).- Il libro “Volere e Volare”, scritto da Carlo Bellieni e Luigi Vittorio Berliri e pubblicato da Cantagalli, è un canto alla vita, all’accoglienza, al rispetto dell’altro ben oltre, anzi in contrapposizione, alla semplice tolleranza.

Un canto a due voci molto diverse come sensibilità, esperienza professionale e anche come forma letteraria, che però trova una efficace unitarietà e incisività nel messaggio, così sintetizzato dai due autori: “una sfida al comodo pensare che la diversità sia da integrare, che la parola magica sia tolleranza, come se il diverso fosse un extraterrestre o un delinquente”.

Berliri offre una serie di testimonianze a partire dai rapporti vissuti con persone affette da varie disabilità o difficoltà di integrazione, inserendo nel testo ricordi personali, scambi epistolari, profili di personaggi e resoconti di situazioni difficili, tutti accomunati da profonda attenzione per la persona e per il mistero che racchiude.

Tutt’altro stile quello di Bellieni, che intreccia due fiction: una che parte dalla Francia medievale al tempo della crociata contro i Catari, l’altra situata nella moderna Irlanda dove, nelle sue ricerche di bioingegneria, una giovane biologa si imbatte in strani indizi che la portano a indagare su un piano di manipolazione globale della popolazione.

Le due storie sono accomunate dal fatto che i due progetti rivoluzionari perseguono lo stesso obiettivo: la selezione di una razza eletta, di uomini puri, perfetti.

Il primo progetto si infrange con lo sterminio dei Catari ma ne resta un’eco concreta che percorre la storia e se ne ritrovano tracce all’inizio dell’Ottocento e su su fino alla follia nazista e all’attività della associazione Thule, creata dal fondatore delle SS e che avrebbe potuto portare alla realizzazione dell’arma invincibile e al trionfo della razza ariana.

Nelle concitate fasi della seconda storia, che si svolge a Dublino, emergono i temi caldi del dibattito attuale sulla vita, portati alle estreme conseguenze grazie alle risorse della tecnoscienza che risolve alla radice il problema dell'eugenetica: un preciso mix di onde elettromagnetiche, tramite un effetto di risonanza, riuscirebbe a corrompere l’ossitocina, l’ormone prodotto dalle doglie del parto e che provoca l’attaccamento tra madre e bambino, arrivando in tal modo a un totale controllo demografico.

Si tratta di un programma meticolosamente preparato e sorretto da un'antropologia negativa - “In fondo l’uomo è una specie di cancro per il pianeta – inquinamento, guerre – e dunque la sua scomparsa non lascerà rimpianti” - e da una cosmologia altrettanto negativa, ben espressa da un’affermazione di uno degli iniziati della setta dei nuovi “uomini buoni”: “Non c’è onore più grande di condurre il mondo alla morte per salvare ciò che è imperituro. Tutto nella creazione è malattia e tutto deve essere purificato svanendo nel fuoco”.

Anche questo progetto però non ha successo. E non tanto per la forza dell’opposizione, quanto per una “falla interna”, che smonta in un modo imprevedibile la presunzione di onnipotenza dei tecnoscienziati: sui “diversi” il sistema anti-procreazione non funziona. Le anomalie genetiche rendono l’organismo inattaccabile dalla nuova peste invisibile: chi non ha un Dna perfetto non ha neppure il bersaglio perfetto su cui le radiazioni letali possono agire.

Così “l’anomalia genetica è diventata un’autodifesa” e ha creato uno zoccolo duro di popolazione “che è indenne alle diavolerie di questi nuovi catari-tecnologici”.

Si riapre quindi la riflessione su cosa sia “normale” e cosa sia “diverso”, e appare con evidenza che la vera questione in gioco nel dibattito sulla tecnoscienza è quella antropologica, prima ancora che quella etica o bioetica.

A quale immagine di uomo e di relazioni tra uomini si rifanno tanti progetti che sembrano rispondere a desideri e aspirazioni “umani”? Un uomo al quale, a differenza dei neo-catari, non debba dispiacere che “qualcosa dentro di noi aiuti a pensare che ci sia un buon motivo per dare la vita”.

* Mario Gargantini è Direttore di Emmeciquadro, quadrimestrale di Scienza, Educazione e Didattica