mercoledì 27 luglio 2011

LETTI E RILETTI

Joseph Roth: una patria che ci viene a cercare

di Paolo Pegoraro*

ROMA, martedì, 26 luglio 2011 (ZENIT.org).- Joseph Roth (1894-1939) è un autore sempre più conosciuto e apprezzato nel nostro Paese. Dopo gli studi dedicatigli dal germanista Claudio Magris negli anni Sessanta e la trasposizione cinematografica del suo capolavoro (La leggenda del santo bevitore, regia di Ermanno Olmi – 1988), sarebbe per un volume che ne raccolga le opere principali. Ci penserà probabilmente Newton&Compton, che ne sta meritoriamente riproponendo i titoli in edizione economica con introduzione di Giorgio Manacorda.

Originario della regione più settentrionale dell’Impero austro-ungarico – la Galizia, tra Polonia e Ucraina – Joseph Roth fu il testimone della sua dissoluzione e dello spaesamento che comportò, in particolare per la popolazione ebraica. Nei suoi romanzi più noti (Fuga senza fine, La Cripta dei Cappuccini, La marcia di Radetzky) un’opprimente incertezza e il vuoto gravido di minaccia saturano il periodo tra le due guerre. Motivi di speranza percorrono invece il romanzo Giobbe (1930) e il breve racconto La leggenda del santo bevitore (1939, pubblicato postumo).

Giobbe racconta la storia di Mendel Singer, un «comunissimo ebreo» senza il prestigio sociale, benedetto tuttavia da quattro figli. Prototipo del giusto provato dalla sventura, Mendel viene colpito nel suo unico bene – i figli – che rinnegheranno uno dopo l’altro le proprie radici. A parte uno, lo storpio e demente Menuchim, che la famiglia abbandonerà in Europa quando traverserà l’oceano per trovare pace apparente nel benessere del Nuovo Mondo. Ma quando la Seconda guerra mondiale reclama il proprio balzello di sangue, Mendel Singer indosserà la «santità della pazzia» per elevare il proprio sdegno a Dio. Passeranno anni di devastante silenzio prima che, proprio nella notte di Pasqua, ricompaia Menuchin: perfettamente sano, giunto al successo come compositore, pronto a riportare il padre al suo paese nativo.

La leggenda del santo bevitore, vero e proprio testamento spirituale dell’autore, ci porta invece nella Parigi dei clochard. Andreas Kartak è un uomo caduto talmente in disgrazia da dimenticare perfino il proprio nome. Il suo passato si è perso nel fondo di un bicchiere di Pernod, eccetto il volto della donna che l’ha portato al tracollo e il ricordo di essere stato un uomo onesto. Quando ad Andreas compare un tale che gli presta duecento franchi, da restituire in offerta alla statua di santa Teresa di Lisieaux, tutto pare cambiare. Quel semplice atto di fiducia lo smuove e avvia una serie di eventi inspiegabili che sembrano porgergli a portata di mano il riscatto sociale. Ma una serie di incontri – altrettanto inspiegabili – con i protagonisti della sua vita precedente si frappongo tra lui e la realizzazione della promessa. Il finale, tra i più toccanti della storia della letteratura, ci consegna un uomo infine riconciliato con la propria contradditorietà.

Giobbe e La leggenda differiscono in numerosi punti. La raffinatezza stilistica e compositiva del Giobbe è straordinaria. Il ritmo della narrazione vive di accelerazioni e rarefazioni, di trapassi dal realismo all’onirico, di accorgimenti lessicali minuscoli e precisi come meccanismi di orologeria (si veda, nel brano proposto qui sotto, il rintocco funebre scandito dalla triplice ripetizione dello “scialle giallo”). La leggenda ha invece una semplicità ariosa e dimessa, quella che i grandi – abbandonata ogni preoccupazione – raggiungono nella maturità. Anche i protagonisti non potrebbero essere più diversi. Mendel Singer è il giusto che si sente irriso perché è Dio – non l’uomo – a non mantenere gli accordi. Andreas Kartak è un uomo che vorrebbe mantenere la promessa e tuttavia non vi riesce, fiaccato dal suo passato. Mendel ha un rapporto diretto fino al litigio con il suo Dio, Andreas non lo conosce e lo incontra attraverso una serie di intermediari. La virtù di Mendel si manifesta nella sua inflessibilità, la rovina di Andreas è la sua incapacità di dire un solo “no”.

Eppure sono più simili di quanto non appaia. Entrambi – come tutti i personaggi di Roth – si sono smarriti: Mendel in America, Kartak a Parigi. Ognuno dei due ha perso se stesso e per quanto si sforzi non più in grado di “trovarsi”. Sono inavvertitamente scivolati fuori dalla propria patria – quella interiore, prima ancora che quella fisica – e si trovano irrevocabilmente chiuso fuori, smarriti in mondo che, per quanto vasto, non contempla un rifugio per accoglierli. Fino al momento in cui qualcuno non li trova. Fino al momento in cui qualcuno non va loro incontro. Mendel viene trovato da Menuchim, il figlio che aveva abbandonato; Andreas viene raggiunto dalla bimba Thérèse, la piccola creditrice a cui non ha saldato il debito. Se Franz Kafka aveva raccontato, ne Il messaggio dell’imperatore, la disperata speranza in un bene che c’è ma non ci potrà mai raggiungere a causa degli ostacoli che il mondo gli frappone, in queste due opere Joseph Roth ci conduce nella posizione specularmente opposta: e cioè verso un bene che c’è proprio perché può raggiungerci nonostante gli ostacoli posti da noi stessi. Giusti o ingiusti, creditori esigenti o debitori incalliti, tutti gratuitamente sfiorati dallo stesso tocco, sublime e imprevedibile.

Un assaggio dell’opera

All’improvviso si sentì a sinistra un fruscio nel grano, sebbene non si fosse levato il vento. Il fruscio si faceva sempre più vicino, adesso Mendel riusciva anche a vedere le spighe alte come un uomo muoversi, tra di esse doveva strisciare un essere umano, magari un enorme animale, un mostro. Scappare via sarebbe stata la cosa giusta, ma Mendel aspettava e si preparava alla morte. Un contadino o un soldato sarebbero saltati fuori dal grano, avrebbe accusato Mendel di furto e lo avrebbe ucciso sul posto, forse con una pietra. Poteva anche trattarsi di un vagabondo, di un assassino, di un criminale, che non voleva essere visto o sentito. «Santo Dio!», mormorò Mendel. Poi sentì delle voci. Erano due le persone che camminavano attraverso il grano, cosa che tranquillizzò l’ebreo, sebbene contemporaneamente dicesse a se stesso che doveva trattarsi di due assassini. No, non erano assassini, erano due amanti. Una voce di ragazza parlò, un uomo rise. Anche le coppie di amanti possono essere pericolose, ci sono molti casi in cui l’uomo diventa una furia, se scorge un testimone del loro amore. Presto i due sarebbero usciti fuori dal campo. Mendel Singer vinse il suo pauroso ribrezzo per i vermi della terra e si stese cauto con lo sguardo rivolto verso il grano. Poi le spighe si separarono, l’uomo uscì fuori per primo, un uomo in uniforme, un soldato dal berretto blu scuro, con stivali e speroni, il metallo riluceva e tintinnava leggero. Alle sue spalle balenò uno scialle giallo, uno scialle giallo, uno scialle giallo. Risuonò una voce, la voce di una ragazza. Il soldato si girò, posò un braccio attorno alle sue spalle, ora lo scialle si aprì, il soldato camminava dietro la ragazza, con le mani sul suo seno, la ragazza camminava avvolta dal soldato.

Mendel chiuse gli occhi e lasciò che la sventura gli passasse accanto nell’oscurità. Se non avesse avuto paura di tradirsi, si sarebbe volentieri tappato anche le orecchie per non essere costretto a sentire. Così invece doveva sentire: parole terribili, il tintinnio argentino degli speroni, risatine folli e sommesse, e la risata profonda di un uomo. Attendeva ora con malinconia il ringhiare dei cani. Se solo abbaiassero forte, tanto forte dovevano ringhiare! Fossero usciti degli assassini dal grano per ucciderlo.

Le voci si allontanarono. Ci fu il silenzio. Tutto era finito. Non era successo nulla. Mendel Singer si alzò di fretta, si guardò attorno, sollevò con le mani i lembi della lunga veste e corse verso la cittadina. Le imposte delle finestre erano chiuse, ma alcune donne sedevano ancora davanti alle porte e chiacchieravano stridule. Rallentò il passo per non cadere, compiva soltanto passi ampi e frettolosi, tenendo ancora in mano i lembi della veste. Si fermò davanti casa. Bussò alla finestra. Deborah l’aprì. «Dov’è Mirjam?», chiese Mendel. «E ancora a fare una passeggiata», disse Deborah, «nessuno la ferma! Giorno e notte va a passeggio. Non resta a casa nemmeno mezz’ora. Dio mi ha punita con questi figli, se al mondo...». «Sta’ zitta», la interruppe Mendel. «Quando Mirjam torna a casa dille che ho chiesto di lei. Oggi non vengo a casa, torno domani mattina. Oggi è l’anniversario di morte di mio nonno Zallel, vado a pregare». E si allontanò, senza aspettare risposta da sua moglie.

Non dovevano essere trascorse nemmeno tre ore da quando aveva lasciato il tempio. Ora, che ci entrava di nuovo, aveva la sensazione di tornarci dopo molte settimane, lasciò scorrere dolcemente una mano sul coperchio del suo vecchio leggio per le preghiere e celebrò con esso un nuovo incontro. Lo aprì e allungò la mano verso il suo libro vecchio, nero e pesante che era di casa tra le sue mani e che avrebbe riconosciuto senza esitazione tra mille libri uguali. Tanto familiare gli era la levigatezza della copertina con le isolette di stearina in rilievo, resti incrostati di innumerevoli candele a lungo bruciate, e gli angoli inferiori delle pagine, porosi, giallognoli, unti, tre volte piegati a forza di sfogliarle da decenni con dita inumidite. Ogni preghiera di cui aveva bisogno al momento, poteva trovarla in un instante. Era scolpita nella sua memoria con i più minuti tratti fisionomici che aveva in questo libro di preghiere, il numero delle sue righe: lo stile e la grandezza della stampa e il colore esatto delle pagine.

Nel tempio cominciava a farsi buio, la luce giallognola delle candele sulla parete orientale accanto all’armadio dei rotoli della Torah non scacciava l’oscurità, ma sembrava piuttosto nascondersi in essa. Si scorgevano il cielo e alcune stelle attraverso le finestre e si riconoscevano gli oggetti nello spazio, i leggii, il tavolo, le panche, i pezzetti di carta sul pavimento, i candelabri alle pareti, un paio di piccole fodere con le frange dorate. Mendel Singer accese due candele, le attaccò sul legno nudo del leggio, chiuse gli occhi e cominciò a pregare. Ad occhi chiusi sapeva riconoscere quando una pagina era finita, e meccanicamente la voltava. Gradualmente il suo busto cominciò a dondolare come al solito, tutto il corpo pregava, i piedi strusciavano sulle assi del pavimento, le mani si chiusero in pugni e battevano come martelli sul leggio, sul petto, sul libro e in aria. Sulla panca della stufa dormiva un ebreo senzatetto. ll suo respiro accompagnava e sosteneva il canto monotono di Mendel Singer che era come, nel deserto giallo, un canto accorato, perduto e familiare alla morte. La propria voce e il respiro del dormiente anestetizzarono Mendel, scacciarono via ogni pensiero dal suo cuore, non era altro che un orante, le parole lo attraversavano raggiungendo il cielo, un recipiente vuoto era, un imbuto. E così pregò incontro al mattino.

Il giorno alitò alla finestra. Le luci divennero fioche e deboli, dietro le basse casupole già si intravedeva levarsi il sole, riempiva di fiamme rosse le due finestre orientali dell’edificio. Mendel

spense le candele, ripose il libro, aprì gli occhi e si girò per andare via. Uscì all’aperto. C’era odore d’estate, di paludi che si essiccano e di verde nuovo. Le imposte delle finestre erano ancora chiuse. Le persone dormivano.

Mendel bussò tre volte alla porta di casa sua. Si sentiva fresco e forte, come dopo un lungo sonno privo di sogni. Sapeva esattamente cosa c’era fare. Deborah aprì la porta. «Fammi un tè», disse Mendel, «che ti devo dire una cosa. Mirjam è in casa?» «Certo», rispose Deborah, «e dove dovrebbe essere? Credi che stia già in America?».

Il samovar cominciò a sibilare, Deborah alitò dentro un bicchiere da tè e lo lucidò. Poi Mendel e Deborah cominciarono a bere assieme, con le labbra protese, sorseggiando rumorosamente.

All’improvviso Mendel posò il bicchiere e disse: «Andiamo in America. Menuchim deve restare qui. Dobbiamo portare anche Mirjam. Una sventura grava su di noi, se restiamo». Rimase in silenzio per un po’ e poi disse a bassa voce:

«Se la fa con un cosacco».

Il bicchiere scivolò tintinnando dalle mani di Deborah. Mirjam nell’angolo si svegliò e Menuchim si agitò nel suo sonno di pietra. Poi il silenzio. Milioni di allodole cominciarono a cinguettare sulla casa, sotto il cielo.

Con un lampo luminoso il sole colpì la finestra, incontrò il lucido samovar di latta e lo accese trasformandolo in uno specchio convesso.

Così cominciò il giorno.

-----------

*Paolo Pegoraro (Vicenza, 1977) si è laureato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e in Letterature comparate presso l'Università "La Sapienza" di Roma. Collabora da anni alle pagine culturali di numerose riviste, tra cui L'Osservatore Romano, La Civiltà Cattolica e Famiglia Cristiana.

“San Bernardino da Siena. Antologia delle prediche volgari”

Bernardino da Siena, il santo del bene comune
Un esempio per politici e amministratori

di Antonio Gaspari

ROMA, mercoledì, 6 luglio 2011 (ZENIT.org).- Pochi sanno che Bernardino da Siena non fu solo un santo padre dell'Ordine dei Frati Minori e che dalle sue prediche volgari traspare un messaggio civile, politico ed economico di valore eccelso.

Dal libro “San Bernardino da Siena. Antologia delle prediche volgari” curato da Flavio Felice e Mario Fochesato ed edito dalla Cantagalli, emerge che l’amore di Cristo, insieme alla carità che ne scaturisce, sono i fondamenti di ogni possibile agire politico ed economico.

E’ impressionante scoprire l’attualità, la saggezza e la lungimiranza delle prediche volgari di san Bernardino da Siena.

I sermoni svolti dal santo su temi come i doni del Creatore, la coscienza, l’unione fraterna, il buon governo, il timor di Dio, l’elemosina e la pace potrebbero fornire un dizionario di riflessione per uomini politici e amministratori.

Già autore di un trattato di economia “Sui contratti e l’usura”, nel 1425 e poi nel 1427 san Bernardinovenne inviato a Siena da Papa Martino V a predicare al popolo per porre fine ai continui dissidi fra le diverse fazioni.

La fama e la rilevanza delle sue prediche era tale che nessuna chiesa riusciva a contenere le persone che accorrevano ad ascoltarlo, così che a Siena venne allestito un altare in Piazza del Campo.

Come precisa Mattia Fochesato nella prefazione al volume, le prediche di san Bernardino tratteggiano una nuova dottrina civile attraverso temi di grande importanza e complessità come l’amore per il prossimo, la cura della comunità, la ricerca del bene comune, le regole della buona mercanzia, l’importanza della preghiera.

Spiegava san Bernardino che l’uomo è destinato a partecipare alla gloria di Dio, e che l’amore di Cristo è un dono la cui caratteristiche sono “grandissima ricchezza; grandissima bellezza e grandissima sapienzia”.

Nelle riflessioni che riguardano la Coscienza, il santo sottolinea che Dio ha creato l’individuo per “il bello, il giusto ed il vero” ed è questa la strada per “conoscere la propria umanità” e per “costruire la propria esistenza e la propria relazione con gli altri uomini”.

Secondo san Bernardino, il riconoscimento dell’amore di Dio verso gli uomini, rappresenta il pilastro della nuova vita della comunità, perchè implica la condivisione fraterna, la solidarietà ed il sostegno reciproco degli individui, il vero amore tra uomo e donna, la volontà di risolvere le controversie.

“Per questo motivo - rileva il santo - la carità deve essere fondamento anche dell’agire di coloro che sono stati scelti per la guida della comunità”.

A questo proposito Fochesato ricorda che san Bernardino invitava i senesi a “cercare e riconoscere i segni della carità di Dio nella propria vita, perchè solo così è possibile per l’uomo la rinascita individuale e il fondamento di una nuova e giusta vita sociale”.

Le prediche del santo sono brillanti, sagaci e anche divertenti. Scritte con il linguaggio toscano del tempo, risultano oggi un vero e proprio tesoro da cui attingere insegnamenti di vita.

In merito alla condotta di vita per esempio, san Bernardino ha scritto: “Non basta astenersi dal male, se non fai l’operazioni buone”. Sulla condivisione: “Oh quanto è buono e quanto è giocondo abitare e fratelli in uno”.

Per spiegare il perdono, san Bernardino riprende Seneca il quale sosteneva che “la miglior vendetta è il perdono” e poi aggiunge che il perdono conviene per “magnanimità, per santa vendetta, per tua utilità e per eccellenza di carità”.

Sull’elemosina san Bernardino afferma che “se vuoi che la tua robba multipli, usa di dare limosine” e soprattutto “quando tu dai la limosina dalla con allegrezza”.

LETTI E RILETTI

Una possibilità più grande della letteratura

di Paolo Pegoraro*

ROMA, martedì, 12 luglio 2011 (ZENIT.org).- È stato dunque Edoardo Nesi ad aggiudicarsi la 65ma edizione del Premio Strega, con uno stacco di oltre sessanta punti su tutti gli altri candidati: una vittoria netta e pulita, come non accadeva da tempo. Nesi – traduttore ed ex imprenditore – era in corsa con Storia della mia gente, una “autobiografia al plurale” che racconta fortuna e caduta dell’industria tessile a Prato; ma è soprattutto nei romanzi L’età dell’oro e Per sempre che fa sentire la sua stoffa di narratore. In particolare con Per sempre, rieditato lo scorso anno per Bompiani (pp. 157,€ 7,50), Nesi aveva dimostrato una qualità rara: lasciarsi mettere in gioco dalle storie che racconta, scombinare carte e calcoli, arrivare persino a conclusioni contrarie al punto di partenza.

Tanto da dichiarare, in una conferenza stampa di presentazione: «Quando ho cominciato a scrivere questo libro non credevo in Gesù». E la storia di Per sempre è un po’ tutta qui: un racconto nato per gioco e fattosi via via sempre più serio. Protagonista è Alice, vent’anni, sette tatuaggi, sei orecchini al lobo destro, cinque a quello sinistro, un piercing al naso, capelli rosso fuoco. Giubbotto di pelle, jeans strappati alle ginocchia, anfibi dell’esercito russo: un look aggressivo e un animo vulnerabilissimo. Ma Alice non è una sbandata. È solo una ragazza come troppe, con un lavoro precario in un call center, un’amica cocainomane e disillusa, un amore finito alle spalle. Il mondo non è sempre un bel posto, ma Alice non fa la vittima, anzi, vuole un futuro. Non ha forze da sprecare in sterili rabbie denunciatarie: cerca speranza. Anche se ogni tanto, per reggere all’urto della realtà, sottrae qualche antidolorifico alla mamma. Chiamarli “psicofarmaci” fa sentire in colpa: e così le chiama “caramelle”. E poi Alice sogna, diventa Alice nel paese delle meraviglie. E quando comincia ad apparirle Gesù non si preoccupa neppure più di tanto. Fino a quando un dubbio non la sfiora: e se, nonostante tutto, non fosse una allucinazione?

Una domandache è diventata la stessa di Nesi durante la scrittura del libro, nato appunto come un gioco che doveva restare privo di risposta, un’irrisolta ambiguità sospesa tra realtà e finzione. “E se invece fosse tutto vero? E se invece la storia di Gesù fosse vera? E se davvero il Figlio di Dio si fosse realmente fatto uomo?”. Dubbio martellante: la fede imbocca possibilità che perfino l’immaginazione letteraria fatica a contemplare. Così Nesi comincia a leggere i Vangeli, resta incantato dalla stringatezza di Marco, riprende in mano le quasi 400 pagine già scritte e comincia a tagliare, a sfoltire, a buttare. Lasciandosi guidare non da un disegno letterario prestabilito, ma da una possibilità che alcuni uomini hanno preso in considerazione da due millenni. Fidandosi del silenzio più che delle parole. Il risultato è un romanzo snello – appena 150 pagine – il più breve che Nesi abbia mai scritto. Un racconto magari non perfetto, ma nel quale brillano una semplicità e una sincerità rare. Dove Gesù non è più un personaggio letterario – una delle tante ricostruzioni che tornano ciclicamente nelle librerie – ma semplicemente una presenza che c’è. Che esiste ed è presente, oggi. Alice sarà sempre più alla deriva, eppure al suo fianco continua ad apparirle un Gesù silenzioso, che la guarda senza mai giudicare, senza dire nulla. Perché ha già detto tutto, per chi davvero lo vuole ascoltare. L’unica altra cosa che egli può aggiungere è la realtà della sua presenza accanto a ogni uomo. In qualunque momento, in qualsiasi situazione. E così Alice si trova Gesù a fianco anche quando vorrebbe abbandonarsi con innocenza all’autodistruzione, lasciando che la percezione del dolore si smarrisse, alla deriva, con tutta la coscienza. Invece Gesù rimane lì, nella sua tunica bianca, a guardarla. Sempre. Perfino in discoteca, persino al lap-dance, mentre sniffa coca o consola la sua amica Deborah che si è messa con un uomo di 30 anni più grande. Il turpiloquio non lo intimorisce, non tradisce nessuno scandalo. Non ci sono luoghi estranei alla sua presenza, dove la sua cura disdegni di accompagnare l’uomo e lo abbandoni a se stesso.

Pare davvero di leggere il salmo 138 declinato nei luoghi dell’alienazione consumistica: «Se dico: “Almeno le tenebre mi avvolgano / e la luce intorno a me sia notte”; / nemmeno le tenebre per te sono tenebre, / e la notte è luminosa come il giorno; / per te le tenebre sono come luce» (vv. 11-12). E quando Alice si rende conto che quelle apparizioni non sono frutto di una sniffata di troppo, allora qualcosa cambia. Perché Alice comprenderà infine che la disperazione – sua e di chi le sta intorno – non è una richiesta di morte, ma un desiderio frustrato di vita. «Suicidarmi non fa per me – dirà. – Io vorrei vivere meglio, non morire alla grande». Ecco, Per sempre racconta la salvezza che va incontro a vite che sentono di meritarsi solo la distruzione. Una salvezza che si fa confidentemente vicina, alla quale si può dire “Scusa” e “Grazie”. Alla quale si possono confidare le grandi ansie ma anche i timori stupidi, le massime ambizioni ma anche desideri infantili. Sì, a questo Gesù si può perfino osare chiedere la realizzazione di un «miracolo goffo». In fondo, alle nozze di Cana, Gesù non guarì malati né resuscitò morti né diede da mangiare agli affamati. Fece un miracolo assolutamente non necessario per evitare l’imbarazzo ad alcuni amici. Per accontentare sua madre. A un Dio così, allora, si può rivolgere la parola.

Un assaggio dell’opera

Ilsole cala lentissimo, giallo come i limoni cotti, e illumina la città sfinita. Il cielo è limpido, un vento d’alta quota sfilaccia le nuvole, le sbiadisce, le allunga per decine di chilometri. C’è un freddo che morde il naso e i lobi delle orecchie. Il tramonto del giorno di Natale non è un granché. Però aspetto, paziente, in attesa che qualcosa cambi. Che succeda qualcosa. Faccio sempre così, fin da bambina. Quando arriva il momento di andar via da un posto, o di addormentarsi, o di smettere di fare qualunque cosa, persino di cambiare canale alla televisione... Ecco, esito, perché non sopporto l’idea di perdermi qualcosa di bello che forse sta per succedere solo perché non ho avuto la fiducia o la pazienza o la fede – sì, la fede – di aspettare che succedesse. Perché sono incostante, viziata. Una bambina, insomma. Una donna, come diceva mio padre, e scuoteva la testa.

E così aspetto, mentre le mani cominciano a intorpidirsi per il freddo, e mi sento vuota e serena, e mi dico che ci dev’ essere davvero qualcosa che non torna in me se gli unici momenti in cui sto bene sono quelli passati a guardare una cosa infinitamente lontana e più grande di me. Sarebbe roba da psicologi, solo che io dagli psicologi non ci vado, basta vedere cos’è successo a Seymour. Poi in un secondo, in un solo secondo, il sole comincia ad accelerare e si abbassa più velocemente, come se cadesse o si staccasse dal cielo, e mi ricordo che Edo mi aveva raccontato questa cosa fantastica che in realtà il sole a questo punto è già tramontato e quella che vediamo è solo la sua immagine rifratta dagli strati più densi dell’atmosfera, una di quelle sue cose astronomiche che capivo poco ma che mi piaceva tantissimo che mi raccontasse. Il sole perde la forma sferica e comincia a nascondersi dietro la collina, che poi è la nuova discarica regionale, e il cielo si riempie di una miriade di nuovi colori: sulla pancia delle nuvole, subito sopra l’arco di luce pura, là dove fino a un attimo prima c’era solo l’azzurro, ora ci sono anche il bianco e il verde e il giallo e l’arancio, e poi c’è un’esplosione immensa e silenziosa, e vedo i colori volare nel cielo come schegge, finché tutto si ferma e il mondo diventa rosa. li cielo è rosa e le nuvole sono rosa e la città è rosa e la croce della cattedrale brilla come se fosse fatta di diamanti rosa, e io sono così ammirata, Signore.

Grazie.

Lo so che questo era per me, e anche se dura poco, solo qualche secondo, non importa, perché mentre comincia la notte e il rosa si scioglie nel celeste in un suo modo incomprensibile, io sono felice che sei qui con me, Signore, Gesù, seduto accanto a me su questo stupido tetto sudicio, e profumi di lavanda, e se allungo un braccio ti posso toccare.

Sei bellissimo. Hai i capelli lunghi, la barba curata, leunghie dei piedi tagliate perfettamente. La tua tunica è immacolata. Chissà come sei, veramente. Cioè, che forma hai. Sei un globo di luce? Un’ombra leggera? Un pensiero?

Dev’essere stata durissima, eh? Cioè, fare quello che hai fatto tu. Perché lo sapevi, certo che lo sapevi... Lo sapevi come sarebbe stato, quanto male avresti sentito... Oh, mi sei piaciuto tantissimo quando sei crollato per un attimo e hai pregato di poterti salvare – nell’orto, di notte, da solo, mentre tutti gli altri dormivano –, quando ti sei perso d’animo e hai avuto paura, come uno di noi, davvero, e hai chiesto a Dio di non morire.

Gesù, Signore, come hai fatto, tu che sei immortale, a morire?

E quando sei risorto, come ti sei sentito? Come potevi essere uguale a prima? Quando avevi provato, tu, tutto quel dolore? E la rabbia? E l’amore? E l’odio? Non sono sentimenti da essere onnipotente: è roba nostra, quella. Sono le emozioni, la droga più forte di tutte.

Io credo che per te diventare uomo sia stato un po’ come ammalarti. Cioè, dopo esserti fatto uomo, tu lo sia rimasto per sempre. Un Dio umano, sei diventato, il nostro Dio. Ti sei innamorato di noi, delle tue figlie e dei tuoi figli. E, dopo essere risorto, non sei semplicemente salito in cielo, Gesù. Sei rimasto sulla Terra. Ti sei mischiato a noi, hai vissuto in mezzo a noi. Hai guardato le albe e i tramonti, il sole e la luna, i fulmini e i temporali. Hai ascoltato la nostra musica, visto i nostri film, letto i nostri libri, ammirato i nostri quadri e le nostre sculture. Cioè, sei rimasto a guardarci come se fossimo il tuo cinema: ognuna delle nostre vite un film diverso, miliardi di storie che hai visto crescere e svilupparsi, e a volte ti sei divertito e a volte hai pianto – perché sono sicura che piangi anche tu e, anzi, io dico che non hai fatto che piangere, in tutti questi anni.

Perché ti abbiamo veramente fatto male, giusto?

-----------

*Paolo Pegoraro (Vicenza, 1977) si è laureato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e in Letterature comparate presso l'Università "La Sapienza" di Roma. Collabora da anni alle pagine culturali di numerose riviste, tra cui L'Osservatore Romano, La Civiltà Cattolica e Famiglia Cristiana.

lunedì 18 luglio 2011

PREMIO BANCARELLA 2011 - IL SECONDO POSTO -


Franco Di Mare - Non chiedere perché.

Marco chiese il conto. Un marco bosniaco e mezzo. Frugò in tasca e trovò una moneta da due. Poi ci ripensò. Cercò meglio e trovò gil spiccioli esatti. Li appoggiò sul tavolo e andò via. Un marco e mezzo. Non un centesimo di più. Non avrebbe mai potuto lasciare una mancia alla madre di sua figlia.

Un inviato a Sarajevo, durante gli anni della guerra nei Balcani. Il suo lavoro è difficile. Deve documentare l’assedio feroce di una città europea per storia e vocazione; una città cosmopolita nelle usanze che, nel giro di pochi anni, si trova ad essere teatro di una guerra impensabile.
I giornalisti che viaggiano molto, gli inviati speciali che corrispondono dai paesi in guerra, conducono spesso una vita solitaria: non c’è tempo per consolidare gli affetti, per mettere radici, per coltivare una famiglia.
Marco Di Luca, protagonista di “Non chiedere perché”, non fa eccezione. Ancora giovane, è già reduce da una separazione consumata in seguito alle sue assenze.
Quando accetta di partire per la Bosnia, nel 1992, lo fa senza pensarci troppo anche perché non ha nessuno che cerchi di trattenerlo, di averlo accanto a sé.
A entrare in confidenza con la morte, respirata e conosciuta ad ogni angolo di strada, Di Luca impiegherà poco tempo, così come a farsi conoscere e rispettare dai serbi con cui entra in contatto: traduttori, professori, uomini e donne di ogni estrazione e professione.
Di Luca è bravo a confezionare rapidamente servizi televisivi nei quali racconta la vita che prosegue, nonostante tutto, nelle manifestazioni quotidiane di coraggio della gente di Sarajevo. Ma il suo lavoro, naturalmente, è anche quello di mostrare in maniera inconfutabile l'orrore che si sta consumando nel cuore del vecchio continente in mezzo all'indifferenza generale e all'inanità delle Nazioni Unite.
Un giorno, una granata cade viene sparata su di un orfanotrofio.
In mezzo ai bambini, fortunatamente tutti sopravvissuti, ce n’è una che attira immediatamente l’attenzione di Marco: è Malina, di dieci mesi, unica bimba dai capelli scuri in mezzo a molti caschetti e capelli chiari.
In un gesto spontaneo di Malina, che gli cinge la testa con il braccino, Marco vede una richiesta e un appello, e a questo appello risponde con una promessa: farà di tutto per avere in affido, e possibilmente adottare, questa bambina sfortunata.
Gli ostacoli, naturalmente, non mancano: e prima ancora delle difficoltà oggettive che la guerra impone ogni giorno a chi debba farsi strada tra le scheggie che solleva, a impensierire il giornalista sono i suoi stessi dubbi. Perché proprio quella bambina, e non un altro, fra i tanti che all’orfanotrofio mostrano di aver bisogno di una famiglia, di qualcuno che si prenda cura di loro? Nonostante tutto, però, Di Luca va avanti a testa bassa, mobilitando nella sua crociata personale amici e colleghi, e trovando risorse inaspettate a tutti i livelli, tra istituzioni e persone che a vario titolo si spendono per rendere la vita un po’ meno drammatica ai bosniaci.


Fra i personaggi che affollano le pagine del libro di Franco Di Mare – la cui storia vera è appena dissimulata nel libro dai nomi, che sono inventati – ci sono coraggiose giornaliste tedesche, presidentesse di associazioni per la tutela dei diritti dei bambini, operatori televisivi e persone la cui storia è comunque segnata dall'esperienza della guerra, che così come distrugge le vite puo' rinsaldare i rapporti d'amicizia o farne nascere di nuovi.

PREMIO BANCARELLA 2011 - IL VINCITORE -


E’ lo scrittore-montanaro Mauro Corona il vincitore del Premio Bancarella 2011, assegnato ieri sera da una giuria composta da duecento librai indipendenti a Pontremoli. Con uno scarto di voti notevole, l’autore de ”La fine del mondo storto” (Mondadori) ha staccato per trenta voti (75-45) il secondo classificato Franco Di Mare con Non chiedere perché (Rizzoli), Andrea Frediani con Dictator – Il trionfo di Cesare (Newton Compton), 28 voti, Alessandro Barbero con Lepanto (Laterza), 19 voti, Claudio Fracassi con Il romanzo dei mille (Mursia), 16 voti e Alberto Cavanna con A piccoli colpi di remo (Arte Navale) con 6 voti . La serata, presentata da Letizia Leviti, si è svolta di fronte a una piazza della Repubblica gremita di persone, accorse da tutta la Toscana e oltre,per assistere all’evento culturale più atteso dell’estate lunigianese che hanno sfidato la pioggia, restando comunque in attesa del verdetto sotto il tendone allestito in Piazza Duomo.

Il libro di Corona parte da un presupposto inquietante: un giorno il mondo si sveglia e scopre che sono finiti il petrolio, il carbone e l’energia elettrica.

È pieno inverno, soffia un vento ghiacciato e i denti aguzzi del freddo mordono alle caviglie. Gli uomini si guardano l’un l’altro, hanno occhi smarriti e il terrore stringe i loro cuori. E ora come faranno? La stagione gelida avanza e non ci sono termosifoni a scaldare, il cibo scarseggia, non c’è nemmeno più luce a illuminare le notti. Le città sono diventate un deserto silenzioso, senza traffico e senza gli schiamazzi e la musica dei locali. Rapidamente gli uomini si accorgono che tutto il benessere conquistato, fatto di oggetti meravigliosi e tecnologia all’avanguardia, è perfettamente inutile. Circondati dal superfluo e privi del necessario, intuiscono che una salvezza esiste, ma si nasconde in un sapere antico, da tempo dimenticato.

PREMIO BANCARELLA 2011





VINCITORE PREMIO BANCARELLA 2011: MAURO CORONA 17 Luglio 2011
Da: FONDAZIONE CITTA DEL LIBRO

Si è conclusa la manifestazione “Nove giorni di libri” e con lei anche l’attesissimo Premio Bancarella. La giornata di ieri ha decretato il suo vincitore, Mauro Corona, che con uno scarto di voti notevole ha battuto tutti gli altri concorrenti in gara. La competizione vedeva protagonisti oltre al vincitore, che ha trionfato con 75 voti, il secondo classificato Franco Di Mare con Non chiedere perché (Rizzoli), con 45 preferenze, Andrea Frediani con Dictator – Il trionfo di Cesare (Newton Compton), 28 voti, Alessandro Barbero con Lepanto (Laterza), 19 voti, Claudio Fracassi con Il romanzo dei mille (Mursia), 16 voti e Alberto Cavanna con A piccoli colpi di remo (Arte Navale) con 6 voti . La serata, presentata da Letizia Leviti, si è svolta di fronte a una Piazza della Repubblica gremita di persone, accorse da tutta la Toscana e oltre,per assistere all’evento culturale più atteso dell’estate lunigianese che hanno sfidato la pioggia, restando comunque in attesa del verdetto sotto il tendone allestito in Piazza Duomo.

venerdì 8 luglio 2011

PREMIO STREGA - Il secondo posto -



L'ENERGIA DEL VUOTO
Autore: Bruno Arpaia
Pagg. 266
€ 16.50
Narrativa
Collana: Narratori della Fenice
In libreria dal: 13 Gennaio 2011


IL LIBRO
È notte, su una stradina di montagna in Svizzera. Un’auto procede veloce, diretta a Marsiglia. A bordo un uomo, Pietro Leone, funzionario dell’Onu a Ginevra. Accanto a lui dorme il figlio Nico, una console stretta fra le mani, i jeans a vita bassissima come ogni adolescente che si rispetti. I due sono in fuga, anche se nemmeno Pietro sa da cosa sta fuggendo. La sola certezza è che da giorni qualcuno tiene sotto controllo i suoi movimenti e che la moglie Emilia Viñas, spagnola, ricercatrice al Cern, la sera precedente non è tornata a casa. La donna è la responsabile di uno degli esperimenti con il Large Hadron Collider, l’Lhc, il più potente acceleratore di particelle mai costruito al mondo. Emilia ama il suo lavoro, al quale spesso, necessariamente, sacrifica la famiglia e soprattutto il rapporto con Pietro, che sembra giunto a un punto morto. Del resto, quella della fisica, da Einstein alla teoria delle stringhe, è un’avventura troppo affascinante.
Lo scopre anche Nuria Moreno, giornalista di Madrid giunta al Cern per realizzare un servizio per il suo giornale e conquistata da quel mondo all’inizio tanto lontano da lei. E proprio grazie alle sue domande, che si fanno via via più puntuali, veniamo coinvolti in un universo che a molti appare misterioso e incomprensibile, ma che in queste pagine si racconta e si manifesta con l’immaginazione e la passione che lo animano, rivelandosi intessuto della stessa sostanza, dello stesso desiderio di conoscenza, degli interrogativi sul futuro e sulla vita che agitano tutti noi... Da chi stanno scappando Pietro e Nico? Dov’è finita Emilia?

I GIUDIZI
"Bruno Arpaia è uno di quelli che affrontano l'arte e la letteratura con l'unica ambizione di essere coerenti con la vita e con l'epoca che gli è toccato vivere."
Luis Sepulveda

UN BRANO
"C’erano quasi. Gli ultimi calcoli, le ultime tarature con i raggi cosmici, altre simulazioni con dati Monte Carlo, le ultime verifiche dei calorimetri e delle camere a muoni, e poi, quando arrivava il benedetto fascio, sarebbero stati pronti per partire. Emilia sollevò lo sguardo dallo schermo e sbirciò Rudy con un sorrisino, ma a lui sembrò che sul suo viso ci fosse più stanchezza che soddisfazione.
«Ora smettiamo» disse. «Siamo troppo stanchi. Meglio farle domani, le verifiche... Abbiamo ancora tempo...»
Erano le otto e mezza e fuori era già buio, ma lì, al centro di controllo provvisorio, a un centinaio di metri sotto terra, le stesse luci al neon perennemente accese facevano confondere le due di notte e le dieci del mattino.
«Va bene» si decise Emilia. «Però domani ricontrolliamo tutto dal principio.»"

PREMIO STREGA - Il vincitore -



Roma - “Erano artigiani, straordinari e fragilissimi artigiani. Lontani pronipoti

dei maestri di bottega medievali, e ciononostante rappresentavano l’ossatura di un sistema economico che incredibilmente si reggeva su di loro, e anche se era ben lungi dall’essere perfetto, funzionava, eccome se funzionava e si basava su quello che all’epoca erano le regole del libero mercato”.

Un mondo spazzato via dalla globalizzazione in nome di quello stesso libero mercato, una realtà che Edoardo Nesi, che ieri notte si è aggiudicato l’edizione 2011 del premio Strega, racconta con rabbia e nostalgia, nel suo romanzo-saggio “Storia della mia gente” (Bompiani, 163 pagine, 14 euro). Le operazioni di voto nel Ninfeo di Villa Giulia a Roma si sono prolungate nella notte registrando una sfida a due fra Nesi e Bruno Arpaia, autore di “L’energia del vuoto” (Guanda, 266 pagine , 16,50 euro). Al terzo posto Mario Desiati con “Ternitti” (Mondadori, 264 pagine, 18,50 euro). Non sono mai veramente entrate in gara, invece, la giovane Mariapia Veladiano con “La vita accanto” (Einaudi, 172 pagine, 26 euro) e Luciana Castellina che ha pubblicato l’autobiografia “La scoperta del mondo” (Nottetempo, 280 pagine, 16,50 euro).

“Storia della mia gente” scritto da un imprenditore diventato scrittore, ultimo esponente di una dinastia di industriali tessili, racconta come proprio a lui sia toccato il compito di vendere l’azienda di famiglia, prima che fosse travolta dalla concorrenza cinese. Il libro risulta per metà l’autobiografia di un intellettuale sedotto dalla letteratura americana e per l’altra un’impietosa analisi economica, politica e sociale degli errori compiuti, a cavallo del millennio, dal sistema Italia nel gestire la rivoluzione dei mercati mondiali.

Anche il libro di Desiati si occupa di lavoro, ma da una prospettiva del tutto diversa, sia come stile che come contenuti. Desiati narra, infatti, la storia di una famiglia pugliese costretta a emigrare in Svizzera dove il capofamiglia dovrà lavorare in una fabbrica di eternit con le conseguenze drammatiche che il contatto con l’amianto comporterà per lui e per tanti altri lavoratori. Nel suo romanzo anche Bruno Arpaia affronta un tema di straordinaria attualità come il rapporto fra la scienza e la vita quotidiana, partendo da un luogo unico al mondo: il Cern di Ginevra, dove si svolgono gli esperimenti per tentare di riprodurre il momento del Big Bang , l’attimo in cui è nata la materia.

Su questo sfondo si sviluppa una trama complessa in cui si intersecano terrorismo e evoluzione dei rapporti padre-figlio. Il libro di Luciana Castellina ripercorre invece gli anni dell’adolescenza della futura militante comunista durante il fascismo.